Sarei tentato di scrivere che in questi dieci anni è accaduto di tutto, se non sapessi che «tutto» accade ogni giorno sotto i nostri occhi, anche se a volte non ce ne accorgiamo. Certo, la situazione dell’arte e degli artisti è molto cambiata, ma sono convinto che certi vizi, contraddizioni e tabù non sono scomparsi. Anzi.

Il gioco al massacro delle cosiddette avanguardie sembra essersi placato, ma solo per assumere forme più sofisticate ed ambigue.

Il mercato, pur in una crisi che molti definiscono salutare, condiziona ancora scelte e chiusure che dovrebbero esulare dal suo campo.

La critica, specie certa ufficialità cattedratica così radicata a Roma, continua ad avere un peso sproporzionato rispetto a quello di qualsiasi altra nazione.

Molti artisti, poi, sono diventati così sensibili alle oscillazioni del potere, da sembrare spesso, se non funzionari di partito, almeno pronti ad una sorta di «nuova obbedienza».

Il ’68 esplose per l’insoddisfazione e la rabbia nel veder rifiutata ogni proposta che scalfisse le gerarchie cristallizzate dei valori: ma appunto erano ancora identificabili forze ostili molto precise con cui prendersela. Oggi tutto sembra possibile, e forse lo è veramente, ma come immerso in una palude, in cui ogni gesto è sostanzialmente inutile. Ha ragione Gaber, viviamo in regime di libertà obbligatoria, con una lenta degradazione del piacere di vivere insieme.

Quando, nel ’67, Vivaldi mi invitò ad una delle prime collettive della Galleria Editalia, avevo alle spalle dieci anni di lavoro accanito ma svolto in assoluta solitudine (salvo le primissime mostre fiorentine affidate solo all’entusiasmo).

Criticamente ero consapevole di quello che facevo, e appunto per questo accettai dì tornare ad esporre. Ma mi scontrai subito con una situazione che aveva deciso la morte della pittura (come anni prima la morte dell’arte). Il mercato e certa critica si dimostrarono ostili fino al ridicolo. Il minimo che mi veniva opposto era che la pittura fosse ormai antiquariato, senza neanche curarsi di vederla prima di parlarne.

Per fortuna trovai compagni di strada non meno decisi di me, oltre naturalmente che bravi, come Carlo Battaglia e Carmen Gloria Morales, per rimanere a Roma. C’erano anche l’Editalia e l’Arco d’Alibert, alcuni critici e tra i pittori già affermati, il più generoso di tutti, Piero Dorazio. L’incontro con Dorazio, un artista per il quale le polemiche sembrano vitamine, è stato per me l’avvenimento senz’altro più importante di quegli anni. Nel suo studio ho capito come l’audacia e l’entusiasmo per il nuovo si possano innestare sulla grande tradizione.

Ricordo quegli anni perché a distanza di poco la situazione si è in qualche modo capovolta. Sia pure con tutti gli equivoci possibili, la pittura ha riconquistato il suo diritto di cittadinanza nel dibattito culturale. È nata la «nuova pittura» o «pittura-pittura», famigerata perché riproposta, in qualche caso, ancora come neo-avanguardia, e quindi bersaglio di tutte le rabbie e i malumori del momento. Il che francamente è grottesco, perché, invece dell’indagine sui motivi che avevano spinto alcuni pittori a insistere con tanta ostinazione in una ricerca autonoma, ne privilegia l’aspetto puramente mercantile.

A conferma di questo malessere, la stessa Galleria Editalia, che nel ’67 organizzava incontri sulle nostre mostre, l’anno scorso ha proposto un dibattito-processo sui possibili equivoci di quella stessa pittura che aveva contribuito a lanciare. Tutto ciò è nella logica delle situazioni che cambiano continuamente: ma sono state fatte generalizzazioni che mi sono sembrate francamente provocatorie.

Quanto al giudizio complessivo su questi dieci anni appena trascorsi, non so se siano stati decisivi o quanto mi abbiano cambiato; non so neppure a cosa mi dedicherò esattamente nei prossimi anni. Ma ho la convinzione di aver posto le condizioni per un lavoro più maturo e più libero, in cui la coerenza non sia data dalla ripetizione ossessiva di una immagine o di uno schema. D’altra parte, se è vero che la pittura è una disciplina che mette continuamente in discussione il codice che la precede, non vedo come sia possibile ipotecare non dico il futuro, ma la stessa, contraddittoria realtà del presente.