1. Henry Matisse scrisse una volta che ai pittori bisognerebbe tagliare la lingua. Gastone Novelli sosteneva che un pittore esprime per segni ciò che non è traducibile con le parole. Per Alberto Burri, drasticamente, ogni parola è di troppo. L’elenco degli artisti che hanno assunto posizioni simili è pressoché infinito. Ma c’è poi una curiosa contraddizione: quasi tutti hanno parlato e scritto per tutta la vita. E aggiungo: per fortuna!

Io non faccio eccezione.

Le occasioni o i pretesti per intervenire sono i più diversi: una polemica in cui ci si sente tirati per i capelli, una intervista, un dialogo con un amico artista o critico. Ma siamo ancora nel campo delle giustificazioni. Le ragioni vere sono altre e credo più profonde.

Si scrive e si parla per fuggire dai rischi del solipsismo, per non restare imprigionati nelle famigerate torri d’avorio, perché l’arte, come già diceva Leonardo, è cosa mentale prima ancora di essere manualità e mestiere. E quindi si scrive per chiarire prima di tutto a se stessi le ragioni di una scelta, le leggi e le modalità del proprio fare.

Gli artisti hanno sempre parlato, ma dalla seconda metà dell’ottocento questa esigenza è diventata fondamentale perché il mondo si è trasformato profondamente. Prima la rivoluzione industriale, poi la società di massa, infine la corsa vertiginosa delle nuove tecnologie e la globalizzazione hanno costretto ogni uomo avvertito a rifare i conti con il passato e con il futuro, a rimettere in discussione verità che sembravano immutabili; di fatto a ripensare nuovi valori, nuovi strumenti di lavoro e nuove modalità di pensiero: insomma a ripensare il nostro destino.

In questo caos drammatico ed esaltante gli artisti sono impegnati direi naturalmente, essendo sempre stati il sismografo più sensibile dei mutamenti della società (e che tante volte li hanno precorsi, pagando spesso di persona).
La vera novità, rispetto al passato, consiste nel fatto che mentre prima il pensiero si evolveva nell’ambito di una comunità, con il contributo di molti (anche se non di tutti), i tempi moderni hanno come frantumato la società, dando l’impressione di porre tutti sullo stesso piano di conoscenza, ma di fatto ricacciando gli artisti in una specie di dolorosa solitudine.

Il fenomeno dei gruppi, a cominciare dagli impressionisti, è nato per sfuggire a questo limite, per cercare di ricostruire, in qualche modo, una parvenza di solidarietà, di interessi e di progetti comuni.

I proclami rivoluzionari, i manifesti teorici, le tante provocazioni sono stati un modo necessario per articolare e dare corso alle nuove idee. Oggi spesso li troviamo ingenui e paradossali, ma contenevano fermenti vivi, spesso folgoranti: erano il nuovo che cercava la sua strada. Quei testi non vanno letti alla lettera, non vanno analizzati filologicamente: vanno interpretati e capiti per quello che avevano di veramente innovativo.

Ancora oggi si parla e si scrive per questo.

2. Questa premessa, forse troppo lunga, termina qui e qui comincia la mia storia di artista. Non intendo parlare ora del mio lavoro ma, con la mia testimonianza, accennare appena ai mutamenti che hanno attraversato cinquanta anni di storia dell’arte in Italia e alle prospettive possibili. Con una prima precisazione: non sono stati anni sereni o rassicuranti, casomai anni straordinari!

Nella seconda metà degli anni 50, quando mi contagiò il virus della pittura, un tema considerato decisivo era il confronto – scontro tra astrazione e figurazione. La polemica era così aspra che non di rado si giungeva alle mani.
Ognuno portava le sue ragioni e naturalmente le considerava decisive. Nessuno era neutrale, non era possibile. Sul campo di battaglia scendevano non solo artisti e critici, ma filosofi, storici, scienziati, economisti e soprattutto, come sempre, i politici.

Chi non ricorda Roderigo di Castiglia, cioè Togliatti, e la sua scomunica dell’arte moderna? O Guttuso, con la sua difesa del realismo socialista? Dall’altra parte, lo scandalo dei sacchi di Burri, con tanto di interrogazioni parlamentari o le polemiche dei giovani astrattisti appoggiati dallo storico Venturi, rientrato in Italia dopo l’autoesilio ai tempi del Fascismo?

Io nel 1956 mi ero trasferito dall’Umbria a Firenze per frequentare l’Università e tra Rosai da una parte e gli astrattisti dall’altra, scelsi senza esitazione questi ultimi. Mi affascinava il loro entusiasmo, la loro ansia di rinnovamento: si sentivano pionieri e Vinicio Berti, loro leader indiscusso, ripeteva in continuazione che bisognava “fare la rivoluzione”.
Il paradosso era che si proclamava comunista, ma era osteggiato dal partito comunista, fermo al mito dell’artista “organico”!

Non mi ci raccapezzavo molto e un giorno chiesi a Berti in cosa consistesse la tanto sospirata rivoluzione: la sua risposta fu sorprendente e insieme rivelatrice del momento: prima facciamola, questa rivoluzione, disse, poi si vedrà!

Non era il massimo della chiarezza! Decisi allora che forse era il caso di studiare un po’ meglio la storia delle avanguardie e soprattutto di confrontarmi con i miei coetanei sulla strada da prendere.

Fondamentali furono i viaggi, anche fuori d’Italia, per vedere di persona quello che realmente stava succedendo, dato che l’informazione non era certo quella di oggi. E cominciarono le sorprese.

A livello internazionale, il problema astrazione – figurazione semplicemente non esisteva. Mi riferisco agli artisti, non al mercato o al pubblico. Quella che mi era parsa la madre di tutti i problemi era un fatto italiano, provinciale, di retroguardia. I giovani più interessanti erano alle prese con altre aspettative e altri progetti. Stava finendo la grande stagione dell’informale, che aveva avuto nell’Action Painting americana la sua punta di diamante, e che si identificava con una visione panica del mondo. Ma ormai stava scadendo ad accademia e i giovani cercavano nuove strade.

Semplificando all’estremo, si può dire che le trasformazioni del gusto seguono ritmi decennali e in tutto il mondo (siamo alla fine degli anni cinquanta) era il tempo della sperimentazione senza limiti. In altre parole stavano prendendo forma le proposte che avrebbero caratterizzato gli anni 60, anzi i favolosi anni 60.

Commistioni di generi, nuovi materiali, i primi video, installazioni, performances, incursioni nello spazio reale e non più solo in quello virtuale della tela, teatro di strada: tutto sembrava, anzi tutto era possibile!

Per quanto mi riguarda, trasferitomi a Roma, smisi per cinque anni di esporre e dedicai tutto me stesso alla ricerca. Mi isolai dall’ambiente, anche dagli altri artisti, pur seguendo con la massima attenzione soprattutto chi non faceva pittura, per capirne le ragioni e le possibilità. Fu una bella lotta tra la ragione e l’istinto, resa più ardua dalla passione che mi urgeva dentro e dai risultati che tardavano. Giunsi comunque alla conclusione che io non potevo fare a meno del colore, che potevo dirmi pittore solo esprimendomi con il colore. Quando tornai ad esporre, nel 1967, ero definitivamente certo che le ragioni della pittura sono “antiche e irrinunciabili”.

Ma ormai anche gli anni 60 volgevano al termine e stavano per cominciare i problematici anni 70. A un decennio caldo e debordante, sarebbero succeduti 10 anni cosiddetti freddi, avvolti dalla cupa nuvola del terrorismo: anche l’arte si sarebbe impegnata in un riesame profondo e accanito di se stessa, della sua storia e delle sue opportunità. Non sono certo mancati i risultati: anzi, oggi, dopo un lungo cono d’ombra, se ne riconoscono i valori germinali e l’importanza. Ma non è un caso che ad affermarsi fu principalmente l’arte definita “concettuale”, e la stessa pittura nel cui ambito operavo si sarebbe detta “analitica”.

A complicare le cose, come sempre, il ricambio generazionale con alcuni vecchi e importanti artisti impegnati a difendere se stessi contro il nuovo.
C’erano pittori, che io chiamo “i pittori del 48”, convinti che le loro battaglie giovanili pro o contro l’astrazione fossero alla base di ogni possibile dibattito; mentre i nuovi artisti li consideravano frutto della stessa cultura, sostanzialmente superati.

Fondamentali, per me, sono stati come sempre i compagni di strada con cui ho condiviso progetti e discussioni. In questo periodo ho scritto molto, forse troppo, avventurandomi in polemiche a volte eccessive ma secondo me necessarie per chiarirmi le idee e avere maggior consapevolezza nel lavoro.
D’altra parte, come non reagire quando la pittura veniva negata per un pre-giudizio addirittura ideologico? E’ pur vero che si guarda con gli occhi ma si vede con la mente!

Ma le cose per fortuna cambiano più rapidamente del previsto.
Stanno per affermarsi gli Anni 80, con un generale rimescolamento delle carte, con nuovi artisti, nuovi critici e, perché no, nuovi collezionisti. Quanto conti il mercato lo dimostrano la sua stessa evoluzione, e le dimensioni che ha assunto a livello mondiale.

Nei decenni scorsi, il giovane artista cominciava la sua “carriera” con piccole collettive via via più importanti, poi le prime “personali”, fin quando, fattosi apprezzare, veniva reclutato da una galleria di prestigio. Questo meccanismo non è certo scomparso del tutto, ma a livello internazionale le grandi gallerie, alla ricerca continua di novità da lanciare, spesso prendono subito in esclusiva i nuovi talenti e sono in grado di proporli direttamente nei grandi circuiti e nei Musei. Solo successivamente, a pioggia, le opere di questi artisti vengono ridistribuite sul mercato. Che poi spesso la logica della novità a tutti i costi ricacci, in pochi anni, quegli stessi artisti nel dimenticatoio è una possibilità niente affatto remota.
Come fondamentale è la dimensione planetaria assunta dal mercato, con l’entrata in scena di grandi paesi ed economie finora rimasti ai margini.
La Cina, la Russia, l’India, le grandi dinastie petrolifere medio-orientali giocano un ruolo determinante, bolle speculative a parte.

Il risultato di questi mutamenti è che il valore di mercato sembra diventato, di fatto, il vero metro di giudizio: effimero ma, nel breve periodo, decisivo.

Non a caso oggi molti ritengono che il più grande artista contemporaneo sia l’inglese Damien Hirst perché in un’asta a Londra, a settembre, ha battuto ogni record, incassando centinaia di milioni di sterline. In realtà, la vera novità di quell’asta è stata il fatto che Hirst ha venduto le sue opere senza passare per la mediazione delle gallerie, ma dandole direttamente alla Sotheby. E questo non era mai successo prima.

Ora, su questa supervalutazione del mercato si può non essere d’accordo, e io non lo sono, ma fermarsi alla sua demonizzazione è solo moralismo. Più realistico sarebbe considerare il fenomeno alla luce di tutte le sue componenti, come per esempio il potere della pubblicità e la provenienza degli investimenti, senza dimenticare quella che una volta si definiva qualità dell’opera: termine questo quasi impossibile da definire, ma che comunque si può misurare solo in relazione a dei valori.
Se il mondo non è più eurocentrico, se gli stessi Stati Uniti stanno perdendo la loro centralità, per forza di cose si affermeranno gerarchie di valori nuovi e diversi: e con questi bisognerà fare i conti.

E’ un processo inevitabile, ma non indolore. Confrontarsi con la tradizione occidentale è già un’impresa enorme, ma farlo con civiltà tanto lontane, geograficamente e culturalmente, esige un impegno ancora maggiore. Gli artisti lo hanno capito da tempo, forse prima di altri.

Ma torniamo alla nostra storia.

Quando mi sono affacciato al mondo dell’arte, faro e punto di riferimento per tutti era ancora Parigi. Ma già negli anni 70 New York aveva scalzato ogni altra città. I giovani, me compreso, visitano i musei e le gallerie americane, alcuni prendono coraggio e si trasferiscono direttamente a New York. C’è un prezzo da pagare, perché New York, come prima Parigi, non si fa conquistare: ti accetta se diventi uno di loro. Ricordo ancora la sorpresa che provai quando, visitando anni fa il Guggenheim, lessi l’etichetta sotto un quadro del toscano Sandro Chia, da poco trasferitosi nella Grande Mela: c’era scritto: Sandro Chia, american artist, born in Italy.

Per contrasto artisti italiani, o anche europei, che noi a giusto titolo consideriamo grandi, non hanno il giusto riconoscimento, e quindi le loro quotazioni sono ancora inferiori al dovuto. Fanno appunto eccezione, come tanti altri ricercatori, quelli che hanno scelto di lavorare all’estero.

C’è anche da dire che molti segnali indicano che le cose stanno cambiando: la richiesta di arte è talmente alta che, forse, pure gli artisti italiani ne beneficeranno. Anche se le strutture pubbliche nel nostro paese sono arretrate e quelle private non hanno grosso peso, la nostra storia e la nostra tradizione sono talmente importanti che un po’ di ottimismo non guasta. A una condizione: che appunto accettiamo la sfida e il confronto globale, ma confermandoci portatori sani dei nostri valori e della nostra peculiarità. Rimanere sé stessi non vuol dire stare fermi, ma capire quello che puoi fare e avere il coraggio di farlo. Perché la cosiddetta globalizzazione, con le sue logiche inesorabili, tende a omologare tutto: non solo automobili e tecnologia, ma anche le opere d’arte e, starei per dire, gli stessi artisti. Il potere della quantità tende a schiacciare le virtù della qualità.

Comunque già oggi, nell’era di Internet, l’uso del computer, con le sue infinite possibilità, se può esaltare le differenze tra ricchi e poveri, tra progresso e arretratezza, nello stesso tempo può essere lo strumento vincente per chi, oggi povero, sappia sfruttare le sue potenzialità forte solo della propria intelligenza e della propria fantasia. Capacità queste che trovano fondamento solo nella cultura e nella storia di un paese: come l’Italia, appunto, ma non solo.

Recentemente sono stato in Cina, ormai paese simbolo del nuovo che avanza. Naturalmente ho visitato la Grande Muraglia, la Città Proibita e l’Esercito di terracotta; poi ho ammirato le meraviglie tecnologiche, i grattacieli avveniristici e da Shangai sono andato all’aeroporto sul treno magnetico che viaggia a 430 km/ora. Ma sono un pittore e ho voluto visitare anche le gallerie d’arte, qualche collezionista e più artisti possibile nei loro studi. Forse sarò condizionato dalla passione per il mio lavoro, ma è qui che ho creduto di capire qualcosa di questo immenso e antichissimo paese. Ho trovato studi piccoli e molto poveri, condizioni di vita grame, ma un entusiasmo che quasi non ricordavo più. Gli occhi, ecco, gli occhi di tanti artisti giovani mi sembravano quasi febbricitanti. Sanno tutto dell’arte occidentale, i loro scaffali sono pieni dei nostri libri d’arte, i loro strumenti di lavoro sono i nostri: ma, insieme, non dimenticano i loro inchiostri, i loro straordinari pennelli a punta, le immagini dipinte su carta dei loro antichi maestri. Insomma sono proiettati nel futuro ma forti e ricchi del loro passato, anzi orgogliosi della loro storia millenaria.

Non credo di aver visto opere straordinarie, se non in qualche caso: ma sicuramente da quel magma ribollente di entusiasmi e contraddizioni nascerà qualcosa di importante.

Ho ripensato naturalmente a tutti i miei viaggi, agli incontri avuti, alle sorprese e alle delusioni: e mi sono confermato nell’idea che proprio dalla conoscenza dell’altro, del diverso da te, puoi crescere e prendere consapevolezza piena delle tue possibilità.

L’artista non è un sacerdote che recita dogmi ma un uomo che affronta strade non ancora percorse, pone interrogativi e qualche volta trova una verità che riguarda anche gli altri e li emoziona.

3. In queste poche righe ho cercato di ripercorrere a volo d’uccello 50 anni di storia dell’arte. E inevitabilmente penso alle differenze e alle similitudini tra periodi tanto lontani tra loro.

Quello che colpisce, di oggi, è la estrema spettacolarizzazione dell’arte e delle sue manifestazioni, come pure la ricerca continua dello scandalo per attirare l’attenzione, con la complicità di giornali e televisione. Le mostre, per funzionare, devono diventare, come si dice oggi, eventi che esigono investimenti sempre maggiori.

Le città fanno a gara, soprattutto in Italia, nell’allestire rassegne in competizione tra loro battendo la grancassa della retorica; e il loro successo o fallimento si misura naturalmente solo sul numero dei biglietti venduti, cioè dei visitatori. Le gallerie rischiano di essere soppiantate dalle Fiere d’arte e dalle vendite televisive, il critico opera scelte soprattutto come organizzatore.

Nello stesso tempo, il pubblico, anche se frastornato, è aumentato vertiginosamente e così la richiesta e l’offerta d’arte. L’informazione, grazie a Internet, è alla portata di tutti e vissuta in tempo reale. E i Musei? Sono le nuove cattedrali della società contemporanea o, come dice Jean Clair, dei Luna Park? Insomma, vantaggi e rischi sembrano bilanciarsi. I giovani, questi problemi li conoscono e li affrontano subito, superattenti alle tattiche e alle strategie cioè alla gestione della propria immagine. E anche questo è un segno dei tempi. Ma, nella sostanza, il loro problema è quello di sempre: elaborare proposte originali, farsi interpreti del loro tempo, bucare con la loro fantasia il filtro sordo delle abitudini.

Non saranno solo le scoperte tecnologiche a cambiare il mondo (se mai cambierà), ma l’energia che si sprigiona dagli studi degli artisti e di tutti gli uomini di pensiero. Questa energia è il vero motore del cambiamento.

L’arte, per esistere, riscrive continuamente la sua storia, rinnovando i codici che l’hanno preceduta, rimuovendo i tabù e azzardando a sua volta. Solo così si è nella tradizione, che altrimenti sarebbe solo un cimitero di feticci.
Il processo di cui parlo porta con sé turbolenze e incomprensioni, genera posizioni estreme e contrapposte, ma questa è la legge della competizione, se la parola non è fuorviante.

Insomma, non voglio tirare conclusioni. Non rimpiango i tempi andati ma non ho la sfera di cristallo per fare previsioni. Voglio credere che tutto sia ancora possibile perché, alla fine, tutto dipende da noi. Che sia tempo di crisi me lo sento ripetere da sempre ma, insieme a “boiate pazzesche”, ho visto nascere opere straordinarie. E saranno queste a rimanere come le vere testimonianze della nostra civiltà, non certo, o non solo, le cineteche televisive.

La libertà, ma non lo scopro certo io, è una conquista che va vigilata e difesa continuamente; e questo riguarda tutti. Il grande Marc Rothko ha scritto che un quadro è una rivelazione miracolosa; altri hanno parlato di mistero o di avventura. Ed è vero, ma certo è un’avventura faticosamente preparata e lucidamente perseguita: perché fare e pensare l’arte sono la stessa cosa.

4. Per quanto mi riguarda, io dipingo su tela: un po’ provocatoriamente dico sempre che faccio quadri “a mano libera“ perché non uso il computer o il laser.
Per calare il mio discorso nella concretezza di un esempio, vorrei ora parlare di una mia opera.

 
 

“La Soglia”, olio su tela, 1996, cm 190×220

Ho intitolato questo quadro La Soglia perché indica letteralmente la soglia del vedere, la soglia della percezione visiva. Il quadro è dipinto con colori ad olio che consentono, a differenza degli acrilici che uso attualmente, una elaborazione lenta, stratificata, per velature e sovrapposizioni, di “figure” che alla fine emergeranno come protagoniste del quadro. Così, il tempo di realizzazione di questo quadro è stato particolarmente lungo.

Io non faccio disegni preparatori del quadro. Intervengo direttamente con il colore, affido interamente al colore la capacità di determinare la struttura del quadro. Penso infatti che la pittura, intendo la pittura dipinta, identifichi lo spazio in quanto colore: e io stesso mi definisco pittore in quanto penso di potermi esprimere soltanto con il colore.

Storicamente ci sono stati molti modi di esprimersi con il colore e penso che in un futuro, peraltro già cominciato, ce ne saranno di nuovi, a partire dall’uso del computer: personalmente uso colori a olio SU tela, e ora gli acrilici, perché penso che siano straordinariamente duttili, ricchi di possibilità infinite, vitali come non mai. In questo quadro ho cercato la saturazione massima del colore, delle infinite gamme dei colori caldi, dal giallo al rosso al viola. Per saturazione intendo la capacità del colore di raggiungere il massimo della sua potenza luminosa.

La luce non è un qualcosa di esterno al quadro che illumina le figure, la luce determina le figure, in qualche modo le fonda: senza la luce le cose non sarebbero al buio, semplicemente non esisterebbero, Nella elaborazione di questo quadro, come in tutti i miei lavori, ho cercato di conservare ad ogni segno, a ogni gesto, a ogni pennellata tutta la loro autonomia e la loro energia: nello stesso tempo, ho cercato di fare in modo che queste pennellate autonome, organizzandosi tra loro, creassero una immagine, una “figura” appunto, capace di identificare il quadro stesso.

Il lavoro si è protratto a lungo, io sono come precipitato in questa dimensione luminosa del quadro, fino a rischiare di perderne il controllo: la soglia è proprio il punto in cui mi sono fermato, perché oltre avrebbe avuto il sopravvento l’inconscio, l’irrazionale, che pure sono parte fondamentale del lavoro. Progetto e abbandono, razionalità ed emozione devono convivere nel mio lavoro, altrimenti il quadro non mi somiglia più. Mi muove la passione, ma non voglio diventare né sordo né cieco.

A questo punto, un passo indietro per spiegarmi meglio. Quando a cavallo degli anni 50 e 60 si tentò di superare l’impasse dell’informale, scaduto a maniera, i giovani tentarono ogni possibile strada, ripensando il concetto stesso di arte. Io, ancorato al colore, mi impegnai in una indagine sulla storia della pittura, sugli elementi primari, costruttivi della pittura. Arrivai a fare quadri con un solo colore, ma non monocromi: identificavo una figura, prevalentemente geometrica, con 3-4 mani di colore, giallo per esempio, diversificandola dal fondo dipinto con una sola mano di giallo. Si determinava così, un triplice ordine di rapporti: caldo/freddo, chiaro/scuro, lucido/opaco. Cioè tentavo di estrarre da un solo colore tutte le sue potenzialità.

E’ chiaro che in questa fase l’aspetto speculativo è importante, come è importante la progettualità. Fu dunque una fase, un momento (durato qualche anno) per me determinante, indispensabile per recuperare tutte le possibilità della pittura. Dalla metà degli anni 70 il mio lavoro è questo: la ricerca dell’equilibrio, dell’integrazione spontanea di questi due momenti: dell’emozione e del progetto. Ma il progetto non è esibito, non si vede, non si deve vedere: conta solo il risultato, che nella sostanza è profondamente diverso da quello informale.

Un’eco, una conseguenza di quegli anni, di quel periodo, è per esempio la scansione in due tele di questo quadro. A volte le due tele accostate servono a far dialogare tra loro immagini diverse, a volte a farle scontrare; il tema del quadro è proprio questo incontro-scontro. Altre volte, come in questo caso, le due tele giocano sulla specularità, sull’integrazione. Diverse ma simili, devono interagire, fino a far dimenticare la divisione che resta in sottofondo.

Ma non posso concludere senza dire una cosa che secondo me è fondamentale. Ogni opera artistica, quindi anche ogni quadro, nasconde dentro di sé, forse dietro di sé, la vera opera. Quando comincio un lavoro, attivo tutte le mie idee, le mie emozioni, le mie capacità, la mia immaginazione: ma poi, ad un certo punto, il quadro comincia ad acquistare una sua vita, la sua identità e mi costringe a seguire le sue indicazioni. Il quadro si decide esattamente in quel momento.

Sta tutta qui la magia e il mistero dell’arte.