Prima di tutto il colore è una parola, una convenzione. Niente è più diverso di un rosa chiaro da un rosa appena meno chiaro, o un vermiglione su una tela preparata in un certo modo da un vermiglione su una tela preparata in un modo diverso. I colori rivelano il massimo della loro complessità e quindi dei possibili, infiniti significati quanto più vengono liberati dei loro attributi psicologici e letterari che vorrebbero renderci familiare e inoffensiva una parola in realtà sconosciuta.

Per questo trovo inesatto che vengano definiti monocromi i miei quadri degli ultimi anni solo perché apparentemente mi servo di un colore unico. Quando dipingo una certa superficie di un quadro con una mano di un colore, compio una operazione profondamente diversa da quella che compirei se riempissi quella stessa superficie con tre o quattro mani di quel dato colore.

In realtà ho due valori, due schemi di luce in completa antitesi tra loro: quel colore, infatti, a seconda di come è stato dato, sarà caldo o freddo (e le gradazioni saranno altrettanto importanti), lucido o opaco, chiaro o scuro. Li unisce solo la convenzione di un nome stampato sul tubetto. Inoltre le due zone dipinte, al primo impatto possono apparire identiche, ma poi ci si accorge che la luce, riflessa diversamente, forza la dimensione, la rompe, e fa apparire il quadro più grande o più piccolo, lo spazio curvo o piatto o su piani diversi.

Questa è l’ambiguità del colore. Ma non basta. Il colore, prima di essere schermo di luce, è pigmento fisico, materia che assume un senso a contatto con un’altra materia. È da questo contatto, dalla giustezza di questo incontro che la materia sprigiona la sua potenzialità: e allora il colore nascerà dal fondo della tela, vivrà, o non avrà senso, unicamente di questa nascita.

Lo stesso discorso va fatto naturalmente per tutti gli elementi che compongono il quadro: dalla dimensione allo spazio dell’immagine, alla tecnica. Il quadro è sempre stato un fatto di percezione, ma quel che è nuovo rispetto al passato, è che abbiamo coscienza della necessità di riesaminare criticamente gli strumenti della percezione. Questa operazione ci avvicina anche all’opera di Paolini. Io tento di ritornare ai termini elementari della percezione: un riscoprire il valore, il significato, la virtualità della luce, del colore, del segno, e non dell’immagine o del racconto; trovare la forza, l’originalità, l’autonomia di questi elementi.