Io mi sono sempre considerato pittore perché convinto di potermi esprimere soltanto con il colore: ma senza la pretesa di privilegiare la pittura nei confronti di qualsiasi altro mezzo o disciplina. Anzi, spesso, la ricerca mi ha fatto sentire più vicini artisti che indagano altri spazi e altre possibilità: e questo perché credo che l’arte sia una scommessa, un progetto che ha a che fare con l’utopia, una proposta che non doppia la realtà ma casomai la interpreta fino a proporne un’altra.

Ecco perché trovo senza senso la descrizione naturalistica o sentimentale, mentre è importante il rapporto con la tradizione, che esiste in quanto si rinnova continuamente: altrimenti sarebbe un sistema di codici bloccati, un cimitero di feticci, buoni solo per improbabili citazioni. Insomma, un artista è nella tradizione solo quando la rimette in discussione, la interpreta, quando gioca fino in fondo il suo ruolo nell’atto di proporre e di azzardare.

I problemi nascono quando gabbie ideologiche o teorie vagamente terroristiche delineano percorsi a senso unico, impongono pregiudizi sulla ricerca: a farne le spese spesso è stata la pittura, come se il peso della tradizione la gravasse di equivoci e condizionamenti che altre strade sembrano evitare. Quando è evidente che, per servirsi di un mezzo tanto affascinante ma così pericoloso, è necessario recuperarne prima le potenzialità con una indagine accanita, profonda, teorica, dei suoi elementi costitutivi, della sua struttura, della sua storia. Insomma, la pittura non è una categoria, dello spirito, ma una disciplina che per esistere va in qualche modo continuamente reinventata, in un rapporto incessante con la tradizione, appunto, con la realtà del proprio tempo, con gli altri artisti e gli altri codici.

La qualità, o meglio la verità di un artista consiste nella capacità di coinvolgere la sua fantasia e il suo immaginario in un universo regolato da una logica tutta inventata ma nello stesso tempo necessaria; se è così, il problema non è più quello del mezzo che si è scelto, ma della capacità di renderlo creativo. Ma, oggi, un artista che aspiri a un grado di consapevolezza degli strumenti e del territorio in cui opera, è stretto anche da un altro e più urgente problema.

A me sembra che molto pensiero oscilli tra una sorta di disperazione senza prospettive, riconducibile in qualche modo alle deformazioni del posmoderno, e l’illusione di un certo credo razionalista che non fa i conti con la realtà. Pericoli che forse possiamo cercare di evitare recuperando in qualche modo una centralità forte, con tutti i rischi e le ambizioni che questo comporta.

So benissimo che, comunque, bisogna vivere fino in fondo la crisi del proprio tempo e che non sono certo mancati contributi importanti e artisti autentici: ma qui sto parlando di un progetto che eviti le lusinghe dell’omologazione e del cinismo, di una centralità da riacciuffare per i capelli, del tentativo di rimettere insieme pensiero e manualità, speculazione e prassi, sentimento e ragione. Se voglio azzardare qualcosa di nuovo, se ho diritto di cercare una mia verità, questo lo ritengo un percorso obbligato. Io lo faccio con la pittura, perché non conosco sistema migliore.