1. Io come pittore sono nato astrattista, nel senso che a 20 anni, dopo le prime prove figurative, dipingevo già quadri che avevano perduto completamente l’aggancio visivo con la realtà. Mi consideravo, ed ero considerato, un pittore d’avanguardia.
Ma cosa si intende oggi per avanguardia?
All’inizio del secolo, l’astrazione si configurò come un progetto al­ternativo rispetto ai codici tradizionali, ed eversivo rispetto al potere. La polemica che ne seguì fu quindi lo scontro tra .due mondi contrap­posti, in cui la forza della trasgressione e della novità era l’elemento chiave per capire la nuova arte. Citare Dada è fin troppo ovvio, e lo stesso si può dire di Kandinsky o di Malevic, per non parlare del Fu­turismo.

2. Nel secondo dopoguerra, la polemica non riguarda più solo la con­trapposizione tra il vecchio e il nuovo: si trasferisce anche tra gli stessi artisti che accettano la tradizione del nuovo, ma elaborano progetti di­versi. Non a caso si formano e si sciolgono continuamente gruppi e tendenze, con artisti che spesso trasmigrano dall’uno all’altro campo. Questo succede perché è avvenuto un cambiamento importante. Le avanguardie storiche hanno vinto la loro scommessa con la storia e i nuovi artisti ne hanno raccolto l’eredità. Ma ovviamente si trovano a dover risolvere problemi nuovi in un nuovo contesto. Ognuno rivendi­ca a sé la corretta interpretazione della storia recente dell’arte, la indi­viduazione dei filoni giusti e dei riferimenti pertinenti. Ma per afferma­re le proprie idee, ripete l’atteggiamento dei maestri, negando spesso il lavoro degli altri in nome appunto dell’arte moderna, cioè delle avan­guardie e dei padri che si è scelti.

3. Evidentemente è una situazione abnorme non perché, qualunquisti­camente, tutte le teorie abbiano lo stesso valore quanto perché, nella logica della competizione polemica, si esaltano differenze che, viste da una angolazione diversa, sono facilmente riconducibili a matrici comu­ni. Che certi protagonisti del dopoguerra, quelli che si possono definire “gli artisti del ’48”, continuino a pensare alle loro battaglie come ai momenti cruciali della storia dell’arte, è comprensibile e per alcuni aspetti anche vero. Ma è altrettanto evidente che agli occhi di un gio­vane tutto ciò appare molto ridimensionato.
Basterebbe l’esempio degli artisti concettuali che, nel ’68, azzeraro­no questa situazione proponendo un progetto teorico in cui aveva importanza solo l’idea dell’arte, o l’arte come idea, e non i modi concreti in cui questa storicamente si era sempre manifestata.
Dico questo non perché io condivida l’impostazione concettuale, che tuttavia ha avuto un suo valore, quanto per mettere in evidenza lo scarto dei punti divista teorici e generazionali.

4. Oggi tutti noi abbiamo ereditato un patrimonio di idee, teorie e opere con cui dobbiamo fare i conti: e questo significa, un po’ ambi­ziosamente, riscrivere continuamente la storia dell’arte, rimuovere i ta­bù, fare delle scelte e azzardare a nostra volta. La mia convinzione, co­me ho già accennato, è che le avanguardie storiche abbiano vinto la lo­ro battaglia, ma che in questo abbiano esaurito gran parte della loro carica vitale.
Il loro progetto, alternativo ed eversivo, era in realtà una utopia e di questa aveva tutti i caratteri distintivi: moralità e coraggio, novità e in­transigenza, trasgressione e follia. Ma una utopia non è tale solo perché di fatto irrealizzabile: ma anzi, paradossalmente, perché si realizza so­lo nel suo fallimento, cioè nell’alta moralità di questo tentativo.
L’arte è un linguaggio che, per esistere, mette continuamente in discussione i codici che l’hanno preceduto: ma questo, appunto, vale ieri come oggi.
In conclusione, se trovo aberrante l’opinione di chi ritiene che la storia abbia smentito le avanguardie, allo stesso tempo ritengo patetico rifarsi passivamente a quei valori in nome di una coerenza che sa di dogma e di paura del nuovo.

5. Questo il mio rapporto con le avanguardie storiche e con la parola “avanguardia” (una volta mitica, ora quasi diffamante).
Ma è il momento di avvicinarsi al lavoro.
Un pittore non dipinge solo con le mani.
D’altra parte, non sarà certo la sola teoria a farlo diventare un arti­sta.
Un pittore potrà tentare di decifrare il proprio rapporto col mondo soltanto con l’opera, punto di incontro di tutte le contraddizioni, sin­tesi imprevista, e imprevedibile, di teoria e pratica.
Come diceva Brancusi, difficile non è creare, ma riuscire a mettersi nella condizione giusta per creare. L’opera sarà così il risultato di un lungo processo in cui tutti gli elementi che vi concorrono hanno pari valore: speculazione e prassi, manualità e cultura, coraggio, fantasia, eversione ecc. Non sarà mai la didascalia di un’idea, come sembravano suggerire certi concettuali, ma qualcosa che esiste e conquista una sua verità solo nel momento della sua realizzazione, quando tutto è possi­bile e il rischio è massimo.
Rohtko ha scritto che un quadro è una “rivelazione miracolosa”, al­tri più modestamente hanno parlato di mistero o di avventura; ed è vero, ma certo è un’avventura preparata con fatica e lungamente perse­guita.

6. Io ho sempre pensato di essere pittore perché convinto di potermi esprimere soltanto con il colore.
Rivendico il mio lavoro nell’ambito della tradizione astratta, ma le regole che voglio e devo seguire nascono tutte all’interno di questo la­voro e non so prevedere dove mi condurranno. Per questo, oggi, dirmi pittore astratto mi sembrerebbe fuorviante e riduttivo, quasi un luogo comune e quindi inutile. In realtà, io credo che la proprietà più alta e misteriosa della pittura sia quella di creare immagini per l’occhio e la mente (si guarda con gli occhi ma si vede con la mente!), le quali hanno la loro ragione e la loro giustificazione nell’essere totalmente libere; perentorie o ambigue, rea­li o fantastiche non importa.
Forse la qualità, o meglio la verità di un artista consiste in questa ca­pacità” dì liberare la sua fantasia, il suo “immaginario”, e convogliarli in un universo regolato da una logica tutta inventata ma nello stesso tem­po necessaria. Il personale linguaggio è un codice che ciascuno elabora in un rap­porto incessante con la tradizione e con la realtà del suo tempo, con gli altri artisti e con gli altri codici.
Lo statuto della pittura non è immutabile, e infatti le sue leggi nel corso dei secoli hanno subito mutazioni profonde: il che non significa progresso, ma solo adesione o anticipazione di nuovi modi di guardare e capire il mondo.
Per quanto mi riguarda, l’unica realtà con cui posso entrare in rap­porto con la vista è quella percepibile attraverso il colore. Come scrive Dora Vallier, a differenza della scultura che occupa lo spazio in quan­to forma tangibile, la pittura occupa lo spazio in quanto colore: e ne deduce che è “nella struttura del colore e non della forma che si devo­no cercare i significati della pittura”.
E’ attraverso il colore che decifro i rapporti tra le immagini e quindi le immagini stesse; è attraverso il colore che lo spazio assume una iden­tità, una virtualità, uno spessore; è sempre attraverso il colore che mi ancoro alla realtà, quando la fantasia proietta le sue immagini attraver­so il quadro.
Visto da questa prospettiva, il problema della figurazione o del­l’astrazione diventa inesistente.
E così, per esempio, se un mio quadro risente di una impressione ri­feribile alla natura, questo dipende dal fatto che oggi posso cominciare un quadro proprio da una lunga osservazione della natura.
Il mio dipinto non nasce mai per dimostrare qualcosa, ma cerca di porsi sempre sul filo dell’esperienza (coscienza e conoscenza). Per questo, mi piacerebbe che nei miei lavori si sentisse sempre la presenza delle cose, dell’uomo, e mai la presuntuosa inutilità di una scoperta o trovata.
Non a caso elaboro i miei quadri con grande lentezza, pronto a sviluppare i suggerimenti che affiorano sulla tela durante il lavoro, con­sapevole soprattutto che il dipinto funziona quando conserva la traccia visibile di tutto il processo che lo ha generato. Anche se il quadro ter­mina quando tutto il lavoro fatto sembra decantarsi, e il dipinto sem­bra realizzato, magari, in poche ore.

7. L’attuale fase del mio lavoro si è aperta una decina di anni fa, quan­do la composizione rigida del quadro cominciò a dissolversi. Mi sentivo finalmente più libero, e capace di organizzare la superficie dipinta con la semplice struttura determinata dalla pennellata. Una particolare at­tenzione la dedicai proprio al controllo del segno e del gesto, commi­surando quest’ultimo al più naturale movimento del braccio. Ne de­rivò una specie di scrittura con una sua particolare unità di misura : da­to che sono destro, la pennellata era orientata sulla diagonale verso l’alto a destra, e lunga 30-40 centimetri.
Diverso il caso del segno fatto di polso o ancora con le dita.
Questa scrittura, naturalmente, si piegò presto a tutti i suggerimenti dell’immagine, mantenendo, però, la sua autonomia e la sua energia contro ogni ipotesi meramente descrittiva.
Nello stesso tempo, il colore cominciò ad emergere con maggiore forza e autonomia, perché mi resi conto di poter sfruttare tutte le sue proprietà, comprese quelle erotiche e illusionistiche, mettendo al servi­zio del quadro anche gli incidenti, le sgorature, gli imprevisti che prima temevo di non poter controllare. Ne deriva un senso di saturazione del colore volto alla liberazione della luce, cioè della forza primaria di tut­ta la grande pittura occidentale.
Lo spazio non è più quello solo mentale designato dalla geometria, ma si compromette con quello reale, accettando e anzi cercando i ri­schi dell’ambiguità.
Infine, l’immagine. La libertà per cui si lavora ha un senso solo se è totale: i limiti, solo quelli imposti dalla disciplina. Oggi, i miei soggetti sono sempre più identificabili e i titoli ne danno una indicazione abba­stanza approssimata. In altre parole fanno parte del quadro, della sua storia e della sua utopia.