CLAUDIO VERNA. OPERE 1967- 2017, in catalogo mostra personale Cardi Gallery, Londra

Guardando alla storia dell’arte italiana degli anni Sessanta e Settanta del ‘900, si capisce come parlare di Pittura, a quel tempo, dovesse essere qualcosa di difficile, o quantomeno controcorrente. Le forti istanze comportamentali, politiche, filosofiche e concettuali in senso ampio, trovavano espressione soprattutto in azioni e installazioni che ben poco avevano a che vedere con le forme d’arte più tradizionali, e la pittura non faceva eccezione. C’era chi vi si rifaceva definendosi “pittore” pur in momenti in cui il lavoro era fatto di tutt’altro (Kounellis), e, altrove in Europa, chi parlava ancora di “scultura” in riferimento ai propri atti performativi (Gilbert & George). La più parte sembrava sentire – o voler decretare – che la pittura aveva ormai espresso il suo potenziale, e che era quindi necessario guardare ad altri mezzi per esprimere il sentire contemporaneo.

Così non era in Nord America, dove nel frattempo il Minimalismo stava cominciando a spostare l’attenzione dall’emotività dirompente dell’Espressionismo Astratto a una riflessione più fondamentale e a tratti scientifica sui cardini dell’arte visiva, sentendo il bisogno di ripartire dalla lezione dell’astrattismo e della Bauhaus per concentrarsi su elementi base quali il colore, la forma, e lo spazio. In quegli anni, a Roma, questa stessa esigenza la sentì Claudio Verna. Per l’artista, fare Pittura è sempre stato un fatto necessario e imprescindibile. Nelle testimonianze che Verna ha lasciato in testi e lettere già a partire dagli anni ‘60, si capisce che nella pittura, e in particolare nel colore, l’artista ha sempre trovato l’unico mezzo espressivo possibile, utilizzato inizialmente al fine di elaborare una riflessione sulla pittura stessa. Riflessione necessaria proprio perché inaugurata in un momento in cui – almeno in Europa – alla pittura pura si guardava con sospetto, quando non con sufficienza. Tale ricerca, assieme a quella di alcuni artisti italiani che a quell’epoca avevano intrapreso un percorso simile (Giorgio Griffa, Claudio Olivieri, Riccardo Guarneri e altri), prese il nome di “Pittura Analitica”, a significare come questa volesse appunto analizzare la pittura nei suoi elementi costituenti. Partendo dallo spazio delimitato dalla tela, passando per le forme essenziali della geometria, si arriva a concentrarsi sul colore: dapprima ridotto alle sue identità primarie, e poi, particolarmente nel caso di Verna, esplorato in una serie infinita di declinazioni. Un’arte che riflette su di sé e sul proprio linguaggio, retto da strutture logiche interne su cui l’artista lavora tramite asserzioni e confutazioni. Prove di verità simili a quelle svolte nella filosofia analitica, la cui principale caratteristica metodologica è quella di sviluppare un argomento le cui premesse portano a una conclusione sorretta da un ineluttabile procedimento logico – un rigore di struttura e di metodo che si ritrova nei dipinti “analitici” di Verna della decade 1967-1977.

Opere come Cosmos 4 (1967) e Come, quando, dove, perché (1967), sono astrazioni geometriche che non si preoccupano di fornire nuove soluzioni percettive o sollecitare il nervo ottico in modi inediti, come nel caso di tanto astrattismo degli anni ‘60, ma anzi sembrano rispondere a quesiti interni, problemi e soluzioni che si danno nello stesso momento all’interno dello stesso quadro. In Pittura (1968), Acrilico (1969), e Contromare (1969), l’artista comincia a lavorare su campi uniformi di colore delimitati, o talvolta interrotti, da bordi che non sono più solamente “hard-edge”, come per la definizione data a certa pittura minimalista americana (Ellsworth Kelly, Frank Stella), bensì sfumano e si integrano nella campitura principale, o ci giocano con rimandi di colore che fanno saltare l’occhio da un’estremità all’altra. Attraverso questa progressione si arriva ad A 115 (1972), piccolo gioiello luminoso e Rothkiano; al monumentale A 159 (1972); e a Pittura (1974/75), dove i campi di colore prendono il sopravvento, le linee sono puro colore tono-su-tono, e si sente una spazialità non meno coinvolgente di quella del Colour Field Painting, la scuola americana a cui si ascrivono, tra gli altri, Barnett Newman, Mark Rothko, e Kenneth Noland.

Fin qui, il contesto e i riferimenti storici sembrano permettere una lettura critica relativamente piana dell’opera di Claudio Verna. Tuttavia, nel ripercorrere i passaggi essenziali della sterminata bibliografia sul suo lavoro, in particolare dalla fine degli anni ‘70 in poi, emerge un senso condiviso di difficoltà, o di riluttanza, nell’applicare uniformemente al lavoro dell’artista le definizioni e le caratteristiche finora esposte, anche e soprattutto da parte dei critici che da sempre ne seguivano il lavoro. Non si tratta di una coincidenza. La ragione, infatti, appare evidente guardando a opere quali Nero acrilico (1977) e Grande Grigio (1978), dove apparentemente all’improvviso (ma in realtà come conseguenza di un processo graduale e fortemente voluto) non si trovano più quelle linee nette di demarcazione spaziale e cromatica tipiche delle opere precedenti, ma ci si trova di fronte a pitture dal forte senso gestuale, inaspettatamente vicine a Soulages e a Twombly. A partire da questi anni, Verna travalica i limiti della corrente “analitica” liberando le forze che attraversano il colore in una inedita gestualità. Il pensiero asseconda la tendenza più riflessiva e contemplativa dell’artista, lavorando sulla lentezza e tornando più e più volte sullo stesso punto, in quella assoluta indipendenza linguistica che Verna ha da sempre rivendicato.. L’energia interna del colore, sprigionata completamente,  ritrova la sua centralità. Inutile quindi cercare di interpretare la profondità abissale di Le quinte della sera (1996) o il bagliore di La luce è un luogo (Dylan Thomas) (2010), poiché sono opere non da leggere ma da guardare, la cui forza risiede nel proiettare lo spettatore in uno spazio nuovo, lo spazio di colore in cui da sempre si muove Claudio Verna.