Claudio Verna. Suddito del colore

                                                                                                                                                   Dico per la permistione de colori nascere infiniti altri colori ma   veri colori essere, quanto li elementi, quattro dai quali più e più                                                                                                                                                          altre spetie di colori nascono. Fia colore di fuoco il rosso, dell’aere cilestrino, dell’acqua il verde et la terra bigia e cenericcia.

                                                                                           Leon Battista Alberti (1436)

Definire Claudio Verna “suddito del colore” può apparire un azzardo. In quale misura un artista accetta un ruolo di sudditanza nei confronti di uno degli strumenti del proprio fare? Verna è il pittore che ha ideato l’epiteto di “sovrano assoluto”[1] per definire il colore. Non è uno strumento, quindi, il colore, ma l’elemento il soggetto l’oggetto e l’essenza di tutta la sua poetica. In questo senso è il colore a dirigere la pittura di Verna, che come un suddito devoto conosce talmente a fondo il proprio sovrano da poterlo governare, innescando un gioco di ruoli in cui il sovrano è a servizio del servo. Verna possiede una rara capacità di scrivere sulla propria pittura: lo dimostra l’autobiografia pubblicata in questo catalogo. Sono proprio le sue parole quelle che meglio ci accompagnano nella comprensione del suo lavoro.

“Nella seconda metà degli anni 60, con la pittura messa sotto accusa nelle sue possibilità e nella sua stessa                                 sopravvivenza, arrivai per gradi ad usare un solo colore: non era né un raggiungimento né il grado zero della                               pittura. Posavo sulla tela un solo colore come un musicista, già esperto, che torna a sillabare le prime note per                             prenderne piena coscienza, capirne il senso profondo nel suo rapporto con il silenzio. Avevo già alle spalle il                               lavoro di una decina d’anni, ma capii che davo per scontate troppe cose, che invece andavano riesaminate”[2].

È noto come la pittura di Claudio Verna sia stata classificata nell’alveo della corrente definita Pittura analitica, insieme a quella di molti suoi colleghi come Carlo Battaglia, Enzo Cacciola, Vincenzo Cecchini, Paolo Cotani, Marco Gastini, Giorgio Griffa, Riccardo Guarneri, Elio Marchegiani, Paolo Masi, Carmengloria Morales, Claudio Olivieri, Pino Pinelli e Gianfranco Zappettini. È altrettanto noto, però, come l’artista abbia specificato con lucidità e rigore in quali termini ritenesse di poter accettare quest’identificazione e per quali ragioni, invece, trovasse opportuno mantenere le distanze dalle logiche classificatorie degli storici e dei critici d’arte che, con l’obiettivo di fare ordine nel multiforme panorama della ricerca e della creatività artistica, somigliano talvolta a scienziati alle prese con nuove specie viventi a cui dare un nome[3].

Verna racconta come il suo impegno così come quello dei suoi “compagni di strada”, fosse quello di ristudiare la storia della pittura, “gli elementi fondanti, i procedimenti, i rischi, il rapporto con la civiltà delle immagini e le altre esperienze, infine la sua ricchezza e la sua libertà”[4]. E prosegue:

“All’interno di quella situazione, in città diverse, agivano artisti che con il passare degli anni avrebbero trovato la loro                     strada e precisato i personali percorsi artistici. In questo senso accetto la definizione di ‘pittura analitica’ e di farne                      parte.   Quando invece si pretende di codificare in senso stretto procedimenti e regole, replicando così vecchi                              equivoci, il  mio dissenso diventa radicale”[5].

Nella seconda metà degli anni Sessanta, in un momento in cui la pittura sembra non essere più uno strumento privilegiato del fare artistico e, anzi, la sua negazione diviene parte della poetica e degli intenti di molti protagonisti del dibattito artistico, Verna giunge “alla conclusione che la pittura aveva in sé tutte le potenzialità per essere ancora, e anzi più di prima, una grande e insostituibilie forma d’arte”[6].

Questo progetto espositivo dal titolo Claudio Verna. Colore come assoluto, più contenuto rispetto al repertorio di opere pubblicato in catalogo, esordisce cronologicamente con un dipinto del 1966: Superficie modulare n. 9. Le macchie e le campiture irregolari, così come la controllata gestualità, rappresentate in questo volume dalle Tempere e dal Cromoracconto degli anni dal 1959 al 1961, cedono il passo a una più definita ripartizione degli spazi nella composizione pittorica. Superficie modulare n. 9, un dipinto di forma quadrata, sviluppa il suo narrare compositivo lungo la diagonale e tradisce una vocazione costruttiva. Il quadro tagliato dall’angolo in basso a sinistra all’angolo in alto a destra è animato da altre emanazioni del quadrato e del rettangolo costruite lungo l’obliqua che ripartisce l’area cromatica con due dominanti diverse di giallo luminosissimo. Siamo alla vigilia della fase in cui Verna sperimenta l’acrilico, ben più complesso per i suoi intenti di stratificazione cromatica rispetto alla pittura a olio. La pittura acrilica, e in particolare quella disponibile sul mercato negli anni Settanta, era meno docile rispetto a quella attuale. Non consentiva certo velature complesse e per giungere all’effetto di consistenza, ma anche di trasparenza cromatica che Verna chiama marezzatura, l’artista deve sperimentare e anche saper scartare. Non stupisce quindi che l’artista non licenzi più di una ventina di dipinti l’anno. Emergenza del 1969 e i due Senza titolo dello stesso anno esibiscono una particolare dinamicità compositiva: il primo per la scelta di una forma romboidale spaesante per l’occhio che cerca l’ortogonalità, accennata da una lama di bianchi gialli e azzurri che entrano nel rosso aranciato del quadro. Qui, come in altre opere coeve, si nota l’attenzione che Verna riserva al bordo del quadro, spesso evidenziato da nastri cromatici leggermente irregolari. L’equilibro della visione è un po’ precario, pur mantenendo sempre un perfetto aplomb.

Come ha osservato Marco Meneguzzo, per l’artista “l’equilibrio non è una scelta, ma un obbligo. Ed ‘equilibrio’ è la parola chiave della pittura di Verna. Per ottenere questo equilibrio, che poi significa armonia, pienezza, unità, classicità, Verna mette in atto tutti gli artifici possibili, da quelli ideali e concettuali a quelli tecnici sino ad arrivare ai più minuti accorgimenti esecutivi, il cui scopo è comunque totalmente indirizzato al raggiungimento di questo obbiettivo”[7].

Anche la scelta di una semplice e poco ingombrante cornice di legno scuro, definita “cornice a cassetta americana”, è indice di un’attenzione all’ostensione del quadro nella sua completezza. Manifesta la coscienza di essersi definitivamente allontanati dalla concezione tradizionale di quadro che “buca” il muro, a favore di un quadro che lo ricopre ed è significante in quanto oggetto autonomo nelle proprie leggi strutturali, compositive e cromatiche. Un quadro che sappia correre il “rischio dell’orizzonte”[8] senza rappresentare altro da sé.

Seguendo la genesi creativa di un’opera come A 59 (1971), che esordisce nella mostra personale a Roma presso la Galleria Editalia nel 1971, scopriamo come Verna parta talvolta dall’osservazione della realtà nella sua dimensione più semplice. Durante un nostro colloquio a Roma, nel suo studio dove regnano la luce e l’ordine, l’artista mi ha confessato che l’idea compositiva per A 59 era nata da una scatola, un cubo aperto e dispiegato nel piano. Ma il mistero che nasconde quel quadro sta nel colore: si tratta di un unico tipo di rosso che cambia intensità e forza solo in virtù delle diverse stratificazioni.

La potenza del suo elemento di creazione primario, il colore, sta tutta nel gioco di sovrapposizioni, nell’annullamento di un pigmento posto sopra all’altro, come a cancellarne l’essenza lasciando però un bordo libero, una traccia dello strato precedente, una sbavatura che deroga alla perfezione del margine.

Tra i vari cicli creativi affrontati da Verna, mai stanco di esplorare le infinite possibilità della pittura, è interessante soffermarsi sui quadri degli anni Novanta, rappresentati in mostra da Oblò n. 2 (1994) e da Geografia I (1999). Qui l’artista, come dichiara nel titolo, strizza l’occhio alla natura. Ritorna alla pittura a olio e ci lascia immaginare un brandello di cielo così come un paesaggio ghiaccio e un’aurora boreale nel suo sfantarsi. Ma nessun paesaggio, nessun orizzonte, se non quello interiore, in cui la vibrazione cromatica è emanazione di energia tra luce e saturazione: non a caso un dipinto in mostra del 2005 si intitola Saturo.

Ancora diversi ma con richiami lontani ai cicli del passato, sono i quadri del nuovo millennio. Qui il colore è esplosione, pulsazione, respiro, ma anche misura, regola e ancora una volta equilibrio. In Accecato (2012) l’artista sembra fare i conti con la struttura a croce del telaio, che generalmente è nascosta dalla tela dipinta, ma che qui è messa in evidenza semplicemente accostando quattro tele il cui bordo rosso scuro fa da contraltare al giallo zafferano aranciato della pittura.

L’“irrinunciabilità della pittura”, come lo stesso artista definisce il suo rapporto con il fare arte, si traduce in una sorta di irriducibilità del suo dipingere a un’unica e strutturata enunciazione programmatica.

“La realtà è che la pittura è un mezzo, un semplice mezzo che può essere per alcuni più congeniale di altri alla                             ricerca di un proprio mondo linguistico.”[9]

Il colore steso da Verna, dato pazientemente in numerosi passaggi e velature, emana luce. È vibrante, reattivo, cangiante. Come se nella pittura di Verna il rosso potesse essere più intenso, il blu più profondo, il giallo più luminoso. In ogni dipinto affiora la sensazione come dato primario, percezione prima. Come se l’artista, per dirla con l’espressione di Cézanne, cercasse in ogni tela “di esprimere quelle confuse sensazioni che ci portiamo con noi fin dalla nascita”[10]: quelle confuse sensazioni di cui, come ci ha insegnato Kandinsky nello Spirituale nell’arte, il colore è sovrano assoluto.

 

[1] Cit. in A. Rigoni, La soglia del colore. La pittura di Claudio Verna, in A. Rigoni (a cura di), Claudio Verna. La soglia del colore. Opere 1970-2009, catalogo della mostra (Legnago, Ferrarin Incontri d’arte, marzo 2010), Tipografia Grafiche Stella, Legnago 2010, p. 13.

[2] C. Verna, Sul monocromo, in A. Rigoni (a cura di), Claudio Verna. La soglia del colore. Opere 1970-2009, catalogo della mostra (Legnago, Ferrarin Incontri d’arte, marzo 2010), Tipografia Grafiche Stella, Legnago 2010, p. 7.

[3] Per un approfondimento cfr. A. Fiz (a cura di), La linea analitica della pittura. Marco Gastini, Giorgio Griffa, Carmengloria Morales, Claudio Olivieri, Pino Pinelli, Claudio Verna, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2007; V. W. Feierabend, M. Meneguzzo (testo di), Pittura analitica, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2008; A. Fiz (a cura di), Pittura analitica ieri e oggi, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2015.

[4] Cfr. Intervista a Claudio Verna di Volker W. Feierabend, in A. Rigoni, P. Cotani, R. Guarneri, E. Marchegiani, V.W. Feierabend, C. Verna, G. Zappettini (testi di), La linea analitica dell’arte. Pittura analitica. Paolo Cotani, Riccardo Guarneri, Elio Marchegiani, Claudio Verna, Gianfranco Zappettini, Valmore studio d’arte, Vicenza 2013, p. 31.

[5] Idem.

[6] Idem.

[7] M. Meneguzzo, Claudio Verna, pittore, in V.W. Feierabend (a cura di), Claudio Verna. Catalogo ragionato, VAF Fondazione, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2010, p. 64.

[8] Cfr. F. D’Amico, Il cerchio di Verna, in M. Goldin (a cura di), Verna. Opere 1959-1998, catalogo della mostra (Conegliano, Palazzo Saracinelli,19 dicembre 1998 – 31 gennaio 1999), Electa, Milano 1998, p. 32.

[9] C. Verna, Perché ancora la pittura?, in M. Fagiolo dell’Arco (a cura di), Claudio Verna, Giancarlo Politi Editore, Milano 1979, p. 24

[10] Cit. in D. Ashton, La leggenda dell’arte moderna, Feltrinelli, Milano 1982, p. 61.