Claudio Verna
Acting Archives Reviews, anno VII, numero 13 maggio

Gli anni sessanta erano stati, per le arti visive, gli anni della smaterializzazione totale dell’oggetto attraverso le progettualità tutte mentali dei fenomeni concettuali (per cui l’opera consisteva nella documentazione del processo ideativo) e di quelli legati alle pratiche del comportamento performativo, in cui il corpo vivo dell’artista prendeva il posto dell’opera. Quando si tornò a porre la questione, e anche l’esigenza, di rimettere la pittura e il quadro al centro del procedimento artistico, l’argomento non fu affrontato come uno dei tanti «ritorni all’ordine» novecenteschi ma come una elaborazione altrettanto analitica di quanto sperimentato in precedenza con due elementi nuovi caratterizzanti, però: da un lato che l’oggetto di analisi era la pittura nella sua dimensione tecnica e materica, dall’altro che entrava in gioco una dimensione percettiva, qualcosa che potremmo definire come il piacere dello sguardo.

Claudio Verna di tale stagione è stato uno dei fondatori e la sua lunga ricerca pittorica si è mossa sempre sul lavoro della pittura come superficie e sulle variazioni sul tema, un tema così minimale che sembra quasi impossibile sia variabile in qualche modo e che, invece, Verna sa modulare secondo modalità ogni volta diverse, sempre lavorando al di qua della forma, anche di quella astratta e geometrica.

Nell’opera che presentiamo nella copertina della rivista, la pittura appare al confine del monocromo: il primo impatto che lo spettatore ha è di una campitura piana di colore o, come accade in questo caso, l’accostamento di due campiture di colore diverso. Ma il colore non è puro, non è unico, nasce da una sovrapposizione di strati, da una contaminazione, come se si trattasse di una tela dipinta a più riprese, di modo che il tono dominante lasci trasparire elementi cromatici diversi. Poi c’è il modo di trattare la superficie. Non piatta ma segnata da una pennellata che, pur senza essere vistosamente gestuale, fa percepire il tocco, tracciando come delle irregolarità, dei movimenti cromatici e delle aperture oltre cui traspare il colore sottostante.

E’ una soluzione tecnica in cui si incontrano il rigore costruttivo di Verna, il binario stretto entro cui ha deciso di muovere la sua ricerca perché lo obbliga ad una riflessione sempre più dettagliata ed approfondita, e un bisogno di libertà. Libertà che si traduce, sul piano percettivo, in un senso di matericità della pasta cromatica, di luminosità nei rapporti tonali, di instabilità percettiva, quasi una sorta di vibrazione, della superficie. Una soluzione attraverso cui la pittura riesce ad essere comunicativa su più piani, sia quello della struttura formale che della dimensione emozionale, senza doversi applicare ad altro che a se stessa, senza dover ricorre all’immagine, astratta o figurativa che sia. Ciò che vediamo, nei quadri di Verna, è la pittura al lavoro negli elementi minimali del suo farsi, il colore e la pennellata, e la sua capacità di colpirci percettivamente ed emotivamente proprio attraverso questo suo essere così pura.