2011 – Alberto MugnainiMoti del colore, catalogo personale Galleria Progettoarte-elm, Milano, 2011

Claudio Verna, come è noto, è considerato uno degli esponenti più brillanti di una tendenza che, in una determinata congiuntura storica, per “salvare” la pittura nel momento in cui dalla sponda concettuale se ne profetizzava la morte, decise di utilizzare le stesse armi degli avversari puntando tutte le sue carte sull’aspetto mentale, teorico, analitico. L’appellativo che ebbe più fortuna per indicare questa confluenza di propositi fu appunto quello di “pittura analitica” e l’aspetto che venne sottolineato e preso a comune denominatore fu l’atto di riflettere sulla pittura nel momento stesso in cui essa era eseguita.

E’ stata questa un’esperienza straordinaria, che ha segnato e concluso un periodo straordinario, la cui importanza per la storia dell’arte italiana, nonostante aspetti ancora di essere universalmente riconosciuta, è enorme.

In ogni caso la pittura non solo non morì in quella stagione, ma come sappiamo si prese, di lì a pochi anni, una rivincita spropositata, con un colpo di mano che fece leva sull’irruzione del Postmoderno per imporre un ribaltamento del tavolo di gioco e il fatto compiuto di una regressione dalla quale in molti si fecero assorbire o travolgere. Regressione che fece andare in frantumi ogni riguardo alla coerenza linguistica e alle fondamenta teoretiche della ricerca pittorica.

Molta acqua è passata da allora sotto i ponti, e Verna è rimasto in tutto questo tempo fedele alla sua pittura con la stessa immutata passione. In più, direi, con un senso di responsabilità, che significa restare aderenti a ciò che si è fatto e sentirsi debitori del proprio passato ma allo stesso tempo essere disponibili ad aperture ed esperimenti, tenendo sempre a livello panoramico la visuale sulla realtà. Detto questo, è forse arrivata l’ora in cui la statura artistica e intellettuale di Claudio Verna possa essere scandagliata e confermata al di là dell’abituale contesto analitico-aniconico, attraverso indagini di più ampio respiro storico e disciplinare, e letta finalmente nel flusso della storia dell’arte e della tradizione della grande pittura di sempre, nel solco dei grandi coloristi di sempre.

Sollevare steccati e picchettare terreni finisce sempre con l’inchiodare la dinamica dell’esperienza artistica a geografie dalla crosta di sabbia. Le prospettive per inquadrare il lavoro di un artista non tollerano postazioni fisse, o specole abitudinarie.  In questa visione più libera, allora, non stupirà che Verna, alfiere riconosciuto di quella che fu l’estrema avanguardia italiana, l’ultima desinenza del Moderno prima dei grandi riflussi, possa qui essere considerato esponente di una prassi pittorica ricollegabile alla grande tradizione del passato.

Partiamo, per fare un esempio, dalla sua ammirazione per un artista apparentemente così distante come Giorgio Morandi: essa si basa su una lettura sostanziale e non nominalistica delle sue opere. Non importa, da questo punto di vista, se Morandi sia intimista, chiarista, metafisico, paesaggista di campagne e di bottiglie o che altro. E’ il modo di intendere e di trattare il colore da parte di Morandi che qui fa testo. L’ammirazione di Verna sarà allora spiegabile e traducibile in termini di affinità elettiva, di sotterranea confluenza di umori.

L’ultimo decennio, più o meno, della produzione di Verna ci aiuta nella nostra disamina, e ci offre la possibilità di recuperare categorie interpretative che, abbandonando espressioni e parole d’ordine esperite su tempi brevi e su cronologie limitate, si ricolleghino invece a una dimensione lunga della storia e delle riflessioni sull’arte.

Il tratto di percorso nell’ambito dell’arte di Claudio Verna che qui, in questa mostra, e in queste stesse parole, viene considerato, ha un punto d’inizio preciso: una data, che in realtà è un nome, e che appunta su questi fogli e sulle pareti della galleria Progettoarte-ELM un segnavia in cui spazio e tempo si incrociano e coincidono.  Ventisei novembre 2003 è un quadro-emblema, una tela che ci accoglie all’ingresso di questa rassegna e che si pone come pietra miliare nella pratica lavorativa dell’artista. Può ben dirsi un lavoro epocale, che sanziona ufficialmente l’ingresso in una nuova fase, la quale continua tutt’oggi, e che è sicuramente la cifra più consustanziale alle premesse, anche teoriche, del suo modo di intendere il colore. Di formato ragguardevole (170 x 200 cm.),  è uno di quei quadri che nei piani dell’artista costituiscono i capisaldi della sua ricerca: perché, come egli ha avuto modo di dire, “se a volte è un piccolo quadro ad aprire spiragli, o suggerire possibilità nuove”, sono poi i quadri di grande formato che, per l’impegno “non solo mentale, ma perfino fisico, si pongono come i cardini del mio discorso sulla pittura”. Questo dipinto è una sinfonia che orchestra uno spettro cromatico che va dal giallo al magenta e sancisce il definitivo ritorno all’uso dei colori acrilici. La data del titolo non si riferisce tanto al quadro, quanto all’occupazione del suo attuale studio romano di Valle Aurelia, all’esigenza di conquistare uno spazio non familiare, di domare, di catturare, di mettere a dimora le nuove condizioni di luce.

Non è questo il luogo per ripercorrere tutte le tappe di mezzo secolo di ricerca, la letteratura sull’argomento è del resto sconfinata e abbiamo testimonianze dirette di quasi tutti i protagonisti della scena critica italiana lungo questo arco di tempo. Acclarato che in Verna esuberanza, passione, precipitazione si sono sempre espresse attraverso un codice, una disciplina, un filtro intellettuale, basti dire che ci sono stati nella sua evoluzione momenti in cui l’equilibrio era leggermente spostato da una parte o dall’altra. Fino all’inizio degli anni Settanta il torrente pittorico scorre entro argini e confini geometricamente limitati, poi questi si allentano, a volte scomparendo del tutto, a volte figurando tagli e partizioni più duttili e vibranti. Lo spazio è articolato da un incalzare di pennellate che lasciano segni visibili, il colore si confrica sulla tela sfruttando la pastosità dell’olio, lasciando tracce che sono aperture e affondi, fluttuare di pinne e colpi d’ala, tutto un dosaggio che Verna si è anche divertito a quantificare, censendo i suoi gesti, misurando l’orientamento e la dimensione dei suoi movimenti, dei suoi colpi di polso o giri di gomito. Un quadro che vorrei ricordare, e prendere a cifra di questa fase, è un lavoro del 1987. Si tratta di una doppia tela, larga complessivamente quasi quattro metri. Si intitola Il muro degli uccelli ed è un omaggio a uno dei maestri più amati, Nicolas de Staël e a una sua incantevole frase. Egli disse, sì, la pittura è un muro, ma tutti gli uccelli del mondo possono volarci dentro. Motto che si attaglia a pennello anche al pennello di Verna, il quale, con questo suo lavoro che lo riecheggia ci ha lasciato un materiale esemplare, in cui prendono vita l’ossimoro pittorico e il paradosso concettuale secondo i quali superficie solida e traiettorie di volo si troverebbero compenetrati. Visto che, come ci ha detto Merleau-Ponty, non si tratta di aggiungere una terza dimensione fittizia a un piano di due dimensioni, in quanto lo spazio della pittura ha infinite dimensioni, ecco che la superficie colorata del quadro si fende e si agita e si impenna, si fa palestra di picchiate e di attraversamenti. Questa fase della ricerca di Verna, anche in ossequio alla peculiarità materica dei colori a olio, possiamo dunque dirla contrassegnata, se non sempre da voli, almeno da “svolazzi” di pennellate, da tocchi d’ala e strofinamenti di becco: tracce planate di traiettorie che si agitano ariose, un agitarsi e un serpeggiare di insofferenza per lo spazio liscio della stasi. C’è un’ansia segnica che aspira a fare movimento, a solcare, a navigare, a tagliuzzare la continuità.

Con la ripresa dell’acrilico, verso la fine degli anni Novanta e poi, più compiutamente, in seguito al già ricordato trasferimento a Valle Aurelia, si precisa in Verna un diverso modo di affrontare il muro della pittura. I passaggi cromatici tendono a farsi più attutiti, il segno del pennello più vaporoso. I moti del colore, obbedienti a una umoralità più profonda, fanno sì che ogni quadro assuma una consistenza che non è esagerato definire carnale, come se la pittura offrisse non tanto una muraglia penetrabile e svolazzabile, quanto una vera e propria consistenza corporea. I rischi, le tensioni e le sfide ne sono in qualche modo incrementati, ogni volta il muro che sbarra la tela deve dimostrare non solo di essere permeabile a voli e sguardi, ma anche di dare l’impressione di consistere non solo, come ogni muro che si rispetti, di mestiche e pigmenti calcinati, ma di un intonaco di colori vivi, di linfe e di succhi. Dovrà rivelarsi intonacato di quella carne che, per citare ancora Merleau-Ponty, è “avvolgimento del visibile sul corpo vedente”. In caso contrario avremo l’informe, l’insignificante, il lembo senza senso.

Un muro siffatto, che schiaccia e vanifica la ricerca febbrile di tutta una vita, ci appare all’improvviso nel momento culminante de Il capolavoro sconosciuto, il racconto di Balzac divenuto miniera inesauribile di spunti e suggestioni per la critica d’arte. Vi appaiono personaggi realmente esistiti, ma il protagonista è un immaginario pittore, Frenhofer, che all’inizio del XVII secolo gode grandissimo prestigio fra gli addetti ai lavori ed è ammirato fra gli altri dal giovane e ancora sconosciuto Nicolas Poussin. Frenhofer lavora dieci anni a una figura di donna, ed è affascinato sempre più, a mano a mano che procede il lavoro, da quanto appare sulla tela. Non solo è convinto di aver eseguito l’opera più importante della sua vita, ma cade in uno stato di fissazione amorosa come se egli avesse creato una donna viva, di ineguagliabile bellezza, dalla quale non riesce più a staccarsi. Quando, vincendo la sua reticenza e gelosia, Poussin e un altro pittore, Porbus, ottengono finalmente  di essere ammessi alla visione del quadro, non riusciranno a scorgere, del dipinto vantato e della donna idolatrata, nient’altro che un adorabile piede, tutto il resto essendo “un muro di pittura senza forma”. Messo dai due colleghi di fronte all’evidenza delle sue allucinazioni, strappato alla sua ossessione d’amore e di bellezza, ne resta talmente sgomento che non avrà più la forza di vivere.

Verna stesso mi ha confessato di essere stato talvolta colto dal dubbio di cadere nella sindrome di Frenhofer. Un suo quadro a olio del 1996, anche questo un dipinto fatto di due tele accostate, conservato al MACRO di Roma, porta il titolo Soglia, proprio a significare l’ossessione e lo sprofondamento che colse l’artista durante la sua travagliata realizzazione. Una volta precipitati al di là della soglia della visione, ci si trova in quei territori dove non solo può accadere di non vedere più niente, ma dove, soprattutto, si rischia di vedere altro.

Non si può dimenticare, del resto, che lo stesso “analitico” Paul Cézanne, dopo aver confidato a Gasquet che quando dipinge non riesce a staccare gli occhi dalla tela, e questi sono talmente incollati al punto che sta guardando che gli sembra che si mettano a sanguinare,  tanto da chiedersi se non stia impazzendo, chiude la frase con queste parole: “L’idea fissa della pittura… Frenhofer”.

Dunque non c’è bisogno di raffigurare una donna di sogno per la quale smaniare di passione: in qualche modo la pittura, liberata dalla convenzione rappresentativa, diventa essa stessa oggetto d’amore. L’incarnato di Catherine Lescault, l’amante fantasma dello stregato eroe balzachiano, è la carne stessa della pittura. E l’angoscia di Frenhofer continuerà a manifestarsi e a tenere sotto pressione il pittore. Questo sarà sempre ossessionato dall’inquietudine che la pittura, ovvero l’apoteosi del colore, di quadro in quadro vagheggiata come se fosse sempre la prima volta,  resti sotto, sepolta, murata, che la carne non palpiti, che gli umori non circolino, che la passione non scaldi il suo oggetto, che non lo renda anche subjectum. Che tutto resti effetto di lembo, pan, panno inerte e caotico, e che non si produca il miracolo, se di muro si vuole continuare a parlare, di quel piccolo lembo di muro giallo – con tutta la magia degli strati di colore che questo giallo recava in sé, visto che si tratta di un dipinto di Vermeer – che ossessionava il Bergotte della Recherche.

Già  Hegel, nell’Estetica, parlava di magia: “… Con questa compenetrazione reciproca, con questo gioco di riflessi e di colori in ogni direzione, con questa mutevolezza e fuggevolezza di passaggi, viene a estendersi sul tutto, data la chiarezza, lo splendore, la profondità, il dolce e delicato luccicar dei colori, una parvenza di animazione, che costituisce la magia della colorazione ed appartiene in proprio allo spirito dell’artista che ne è il mago”.

Claudio Verna non ha mai smesso di ripetere che tutta la sua ricerca è costituita da una lunga, ininterrotta indagine sulla struttura del colore. Le sue osservazioni sembrano trovare una corrispondenza profonda con quanto afferma Goethe nell’introduzione al Trattato sui colori: “L’intera natura si rivela attraverso il colore al senso della vista. Ora affermiamo, seppure in certa misura ciò possa sembrare singolare, che l’occhio non vede alcuna forma, in quanto soltanto chiaro, scuro e colore stabiliscono insieme ciò che distingue un oggetto da un altro e la parte di un oggetto dalle altre. Sulla base di questi tre elementi costruiamo il mondo visibile rendendo così contemporaneamente possibile la pittura, capace di creare sulla tela un mondo visibile assai più compiuto di quanto possa essere quello reale”. La visibilità del reale e quella sorta di visibilità perfezionata che è la pittura consiste esclusivamente in una combinazione di valori cromatici. La pittura, quindi, anziché rappresentare, replicare e riprodurre le cose esistenti, incarna e completa materialmente sulla tela le potenzialità, esprimibili e contemplabili, di questo mondo che noi percepiamo.

Si potrebbe forse dire che la pittura è come un film la cui pellicola non mostri i fotogrammi in successione ma per sovrapposizioni inarrestabili, fino a saturarsi di trasparenze, fino al paradosso di una trasparenza assoluta e compatta, un ventaglio di pellicole chiuso come un intrecciarsi di petali sul mistero di una linfa che sgorga da un insondabile interno. Verna non ha mai smesso di cercare la saturazione massima del colore, di visualizzare la sua tensione come un processo che parte da dentro, che erompe dal profondo. La pittura potrebbe essere allora una specie di surriscaldamento del colore, la sua malattia, la sua febbre?

Ci sono stati tempi in cui il colore non era effettivamente disgiunto da una connotazione fisiologica. Trattati di pittura e di medicina concordavano nell’attribuirgli qualità di sintomo. Gli incarnati erano scrutati e decifrati dai teorici dell’arte non meno che dai medici. Se i primi ne sindacavano l’unione e la gradazione, i secondi ne interrogavano la superficie per arrivare a conoscere i segreti interni del corpo.  Allo stesso tempo, il colore percepito era accreditato di avere effetto sugli umori, in un circuito praticamente senza fine.

Giovan Paolo Lomazzo, nel Trattato dell’Arte della pittura (1584) raccomanda di commisurare sempre il colore alle emozioni e ai temperamenti, ovvero di adattare le misture del colorito alle commistioni degli umori, facendo parlare i colori in rappresentanza, e praticamente in riecheggiamento, dei moti dell’animo. La pittura, dunque, riflette e quasi duplica il traboccare delle passioni, lo scombinarsi e l’adulterarsi di bile, melancolia, flemma e sangue – umori gialli, neri, biancastri e rossi – attraverso una ben assortita e amalgamata combinazione di tonalità cromatiche. I moti dell’animo son fin d’ora figurati e trasfigurati in moti del colore.

Ecco allora che i dipinti sono lo specchio di un umore, acquistano una loro corporeità, si dotano di una nervosità, di una reattività che si ripercuote di nuovo sull’umore. La prassi pittorica, in effetti, una volta effettuata la prima mossa, consiste in una partita a due. “Inizio comunque a lavorare – ha detto Verna – stendendo uniformemente sulla tela un primo colore, in genere rosso: mi serve per dar corpo alla superficie e sondarne la risposta”.

Un corpo che risponde. Uno strato di rosso. Pensiamo al sangue, ma come lo intendeva Michelet, come una sorta di elemento cosmico. E’ il sangue della pittura che affiora, che riluce nel profondo dello spazio, come in un altro grande dipinto, Pensieri assorti (2005), dove si dispiega una respirante epifania che rievoca azzurrità galattiche, o forse palpitazioni sottomarine, quella carne ittica che partecipa dell’umbratilità del mare. Notiamo a questo proposito che “marezzatura” è un termine che a Verna è caro, e questo richiamo alla sostanza inafferrabile, alla materia talassale, alla mitologia equorea di un permanente autoplasmarsi e trasfondersi, l’identico mai uguale a se stesso, potrebbe fornire una buona metafora per definire la pittura. Ma la temerarietà di un artista sta nell’andare oltre il limite metaforico di una figura, nel coglierne la tentazione metonimica, e nel concepire quindi lo stesso suo quadro come una parte del tutto, nel sentirlo simpateticamente partecipe, in questo caso, dei moti del mare e del sangue. Plasma generativo, lo sciabordio del verde e dell’azzurro qui non si chiude, non fa talmente velo da non lasciare scorgere un fondale sanguigno, una abissalità corallina che la magia del pittore pretende fusa insieme con la superficie, come un alto-mare accarezzato in tutta la sua profondità da un sorvolo di pennellessa.

Profondità, infinite dimensioni del colore, abbiamo detto. La velatura è in realtà scoprimento, il ritornare del pennello sui propri passi corrisponde a un incunearsi sottopelle, a un aumento di pressione, a un arricchimento globulare del sangue. Ciò che temporalmente si sussegue non potrà essere ricostruito nei suoi passaggi dalla vista come voleva l’Action Painting, di fronte a cui lo spettatore doveva essere teoricamente in grado di ripercorrere i gesti e le traiettorie dell’agente pittorico.

Il colorito è indecifrabile. L’incarnato non si lascia ripercorrere, è fusione di toni e di umori, come il riflesso sanguigno del tramonto fuso nella chiara trasparenza di acque lacustri. E’ ancora Hegel a fare questo paragone. Qui il pennello tende a confondere le tracce, ciò che è il tocco finale può trovarsi filtrato, risucchiato e assorbito sul fondo, si può trovare fuso colloidalmente su strati precedenti, l’acrilico permettendo trasparenze e assorbenze, saturazioni, erubescenze e impallidimenti.

Il contrasto di colorito si fa drammatico in Controluce e Controluce 2, entrambi del 2011. Qui abbiamo a che fare con partizioni nette e scansioni affidate a linee rette. Il piano è scompartito, sdoppiato da una cruda linea d’ombra, si produce una bipartizione cromatica come se il quadro venisse tagliato in due campi araldici contrapposti, il cui smalto cromatico però acquista una consistenza tattile, che lascia profilarsi virgole granulose che incidono l’ombra colorata, di pura ascendenza leonardesca, e lasciano trasparire smagliature tattili, attriti e scarificazioni che sorprendono e sospendono il procedere liscio del pennello. Attraverso queste abrasioni si intravede un sottofondo palpitante, un plasma premente e pulsante che fora il monocromo saturato di luce blu notte e di ombra intrisa di sole, e che sembra alludere ancora a un incarnato sotto quel colore di tenebra, sotto quella reincarnazione di lembo di muro giallo, ora quasi sul punto di rivelare gli sprazzi ombrosi della propria carne, quasi sul punto di sanguinare. Un moto speculare, forse, agli interni sommovimenti del pittore, che talvolta, come abbiamo visto, ha l’impressione che i suoi occhi sanguinino.

Chissà, forse è anche per dare un segnale di alleggerimento, per punteggiare e guidare una visione di superficie e di sorvolamento che l’artista, quasi ininterrottamente lungo tutta la sua navigazione nel gran mare della pittura, ha trovato così spesso l’esigenza di apporre sulla pelle dei dipinti sottili crocette in cui confluiscono segmenti di rette o virgole di circonferenze: mirini, appunti d’orientamento, asterischi, crocevia, unità di misura, schegge di memoria geometrica, filigrana di cartografia, resti di disegno, scarti di segno? In ogni caso, interpunzioni che si traducono in minimi contrappunti visivi, diffrazioni radiali, una flora fosfenica che balena d’un tratto, a intervalli regolari e pausati, come il geroglifico di una scomposizione prismatica radiale di punti o di riflessi luminosi. Personalmente non riesco a sottrarmi alla suggestione di leggerli come filamenti di fiammelle quadrilobate, infimi rimasugli di stelle polari a indicare una possibile rotta allo spettatore, risucchiato e sperduto nell’interfaccia abissale che si apre fra il supporto e lo sguardo.

Il pittore in certo senso procede a ritroso, in realtà mette in moto qualcosa che preme dall’interno contro la crosta della superficie. Può essere, abbiamo visto, anche febbre, patologia. Il colore, il pharmakon, veleno o medicina, attraverso la sua chimica e mineralogia reagisce su se stesso nella misura in cui, come raccomandava Lomazzo, dà sostanza e carattere a un incarnato. E non è necessario, perché questo incarnato sussista, e come Frenhofer si augurava in modo troppo letterale, che ci sia “una donna là sotto”. Ci può essere altro, senza che il processo di femminilizzazione del colore sotto la specie del “colorito” che, come attesta  Georges Didi-Huberman nel suo mirabile saggio La pittura incarnata, resta costante in tutta la storia dell’arte, debba interrompersi. Certo, nessuno cerca più un corpo femminile, ma rimane la passione, il desiderio, un erotismo puro del colore: Verna ha avuto modo di ricordare, en passant, di essersi reso conto, a un certo punto, sempre a proposito del colore, “di poter sfruttare tutte le sue proprietà, comprese quelle erotiche e illusionistiche”.

Ora se si presta attenzione al fatto che Verna non ha mai potuto lavorare a più quadri contemporaneamente, o imbarcarsi in produzioni seriali o variazioni sullo stesso tema; che ogni quadro per Verna ha una sua storia; che la passione è sempre stata la sua carica interna, dirompente e pericolosamente esclusiva, tenuta sotto controllo dall’assunzione di un codice e da una disciplina; che ogni quadro è come se fosse il primo, e allo stesso tempo dovesse essere anche l’ultimo, il più importante, oggetto esclusivo di attenzione e passione;  se prestiamo attenzione a tutto questo è chiaro allora che il contenuto del quadro diventa per il pittore anche oggetto di desiderio. Il fantasma di Frenhofer è sempre in agguato.

Ma i moti del colore possono riferirsi anche a una dinamica che precede e in qualche modo blocca le possibilità stesse di un incarnato: l’appellativo che definisce questa mostra è anche il titolo, più specificamente, di un lavoro tra i più recenti (2011). In questo dipinto Verna sembra arrestarsi, sulla via della carne, a uno stadio anatomico di tendini e muscoli:  guardandosi, per così dire, un poco alle spalle, sembra voler qui recuperare scie e istologie di pennellate più corpose e traccianti. Lascia degli interstizi, dei punti di fuga reticolari, squarci di verde-azzurro come frantumi di lontananza dentro la polpa nervosa e scattante di un incarnato che non arriva a chiudersi, a risolversi in uno sfumato, in una pacificazione di umori: carne più inquieta e nuda, impastata ancora di pennello e di gesto, in cui vicino e lontano, dentro e fuori, superficie e profondità mantengono una divaricazione che fanno pensare piuttosto al “corpo colino” di Artaud, al corpo aperto sull’interno della propria lontananza.

L’artista, il suo corpo, la sua mente è questo interno. E’ la sua attesa, la sua aspettazione: egli expectat, dirige, nel suo moto pittorico, compulsivamente, gli sguardi su qualcosa che sta per arrivare e che ancora non conosce, e che sarà una dismisura, la quale imporrà uno sforzo sempre rinnovantesi di arginarla, decifrarla, renderla carne, spazio, senso.

E questa aspettazione fa rinascere nella sua memoria – e nella nostra, che ripercorre i tracciati di quella memoria prima e fondante, memoria di artista-in-quanto-natura – impressioni e intuizioni e presentimenti; l’eternarsi delle stagioni, il trascolorare degli elementi, l’affiorare cangiante dei ricordi, in uno stato, sempre, di attesa, di orecchiante vigilia. In questo senso si può dire che anche una fabula sia fusa dentro la tabula: parla parole sillabate di colore, il verbo è liquefatto nella materia, una poesis che consiste nella scansione delle strofe cromatiche e che in esse si trova completamente sottintesa e annegata. La vie des formes è colta in un attimo della sua potenzialità infinita, inafferrabile. L’alchimia del verbo fatto colore, senza più alcuna grammatica che non sia l’obbedienza a certi suoi insondabili circuiti interni, una dinamica di fluidi mentali transustanziati nella scorrevolezza della pasta polimerica che si fa pharmakon: medicamento e veleno, contenimento e scatenamento insieme di quella perpetua, cutanea, cerebrale, psichica, emotiva, vulcanica eruzione che è la pittura di Claudio Verna.