2010 - Marco MeneguzzoClaudio Verna, pittore, Catalogo ragionato, Fondazione VAF, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2010

Per comprendere cosa questo attributo possa significare per il contesto in cui vive l’artista sarà necessario percorrere analiticamente tutta la sua attività, dagli esordi attorno al 1959, al lungo periodo di appartata maturazione a metà anni sessanta, all’impetuoso successo a cavallo del 1970, alla riflessione sulla pittura come mezzo, strumento e linguaggio dalla fine di quel decennio ad oggi. Ma adesso, ad apertura di questo testo, è ancor più necessario tentare di capire cosa significhi per lui “essere pittore”, coacervo di sentimenti e di pensieri che non sempre – anzi, nel nostro caso quasi mai – coincide col significato che il contesto gli attribuisce e gli ha attribuito nel corso del tempo. Si potrebbe quasi dire che, una volta convintosi della sua vocazione – termine antico, ma calzante – attorno al 1967, le sue idee sull’arte e sulla pittura siano cambiate pochissimo, certamente assai meno di quelle del suo contesto, che ora gli era tangente, ora divergente, ora plaudente, ora dissonante. In altre parole, Claudio Verna è stato scarsamente influenzato dallo spirito del tempo, pur essendo molto curioso (e forse proprio per questo) dello spirito del tempo stesso: la sua cinquantennale attività è un’avventura prettamente individuale, che casualmente in qualche momento ha coinciso con altre avventure individuali, sino a costituire non proprio un movimento, ma un qualche sembiante di tendenza artistica identificabile e catalogabile (il riferimento è ovviamente agli anni settanta della Pittura Analitica, o della Pittura Pittura).

La pittura, allora, quasi fosse una sfera in cui si trova contemporaneamente all’interno e sulla superficie, da cui si esce solo per percorrerne la crosta, e come su un pianeta abbastanza ampio se ne può vedere la curvatura all’orizzonte, intuirne e dedurne la forma senza mai poterla guardare tutta insieme se non allontanandosene definitivamente, come il pianeta Terra visto dallo spazio (ma di cui, comunque, rimane sempre una faccia nascosta allo sguardo). In passato mi sono spesso chiesto come si potesse decidere di rimanere all’interno della pittura, o di ritornare alla pittura, e basterebbero queste due forme verbali – rimanere e ritornare – associate al termine pittura per identificare esattamente alcune delle riflessioni teoriche e pratiche più importanti di due decenni artistici contigui, i settanta e gli ottanta del XX secolo, e tuttavia, nel pensare al lavoro di Verna nessuno di questi termini è valido. Certo, se nella sua attività è evidente che non c’è alcun “ritorno alla pittura”, perché Verna non l’ha mai abbandonata, si potrebbe invece pensare che egli “rimane” nella pittura, ma se così fosse dimostreremmo di dare più retta al contesto storico critico che al suo reale lavoro: Verna infatti non decide di “rimanere nella pittura”, come se fosse un artista concettuale che si sceglie razionalmente il campo d’indagine ( e come per molti altri artisti è stata l’esperienza della Pittura Analitica), perché sarebbe come se decidesse di abbandonare la sua sfera, il suo pianeta. Si può fare, per brevissimi periodi – un viaggio nello spazio, per esempio – ma per ritornare poi sulla superficie, a anche in questo caso un cosmonauta non smetterebbe di essere cittadino della Terra… Tutto questo per dire come Verna non si sia mai posto il problema di rimanere o di andarsene dalla pittura, se non all’inizio della sua attività, dove però la questione e il quesito erano leggermente diversi: “sarò un artista?”. Una volta risposto affermativamente – e, come vedremo, Verna ci ha impiegato circa otto anni a darsi questa risposta – il “luogo” dell’arte per lui è stata la pittura. Per lui, dunque, chiedersi di “rimanere nella pittura” sarebbe come chiedersi “rimarrò abitante della Terra?”…

La pittura si può affrontare in vari modi, che si riducono comunque ai due grandi campi – occidentali, in senso culturale e storico – della ragione e del sentimento: l’impeto apparterrebbe a quest’ultimo, la pazienza al primo. Basterebbe questa suddivisione quasi banale nella sua semplicità di luogo comune – ma tuttavia non falso – per comprendere come Verna adotti un sistema che attraversa sempre il confine tra i due campi, tanto da non poterlo mai collocare, se non temporaneamente, nell’uno o nell’altro o, il che è lo stesso, pensa alla dualità e all’opposizione degli atteggiamenti con cui affrontare la pittura, come alle due facce di una sola unità, come nel famoso segno orientale dell’essere, l’unione di yin e di yang, per cui l’essere non è che il continuo misurarsi degli opposti senza che uno riesca a prevalere sull’altro, pena lo squilibrio del mondo (per la verità, qualcosa di simile c’era anche in Occidente, nelle filosofie presocratiche, e c’è nel concetto fondamentale di “dialettica”, ma la nostra cultura sembra essere maggiormente attratta dal concetto di “supremazia” e di “egemonia” di un elemento, di un’idea, di un modello, piuttosto che dall’attitudine all’”equilibrio”, al “confronto”, all’”integrazione”, e questo massimamente – e paradossalmente – quando si parla di linguaggio dell’arte).

Per Verna, però, non si tratta affatto di “neutralità”, di non scelta, di distaccata indipendenza dall’agone linguistico, quanto proprio del contrario: un impegno talmente profondo di comprensione, che si traduce in un cammino sempre sul limitare di quel confine tra gli opposti, confine che – sempre riprendendo il segno/simbolo orientale che lo rappresenta –  per giunta non è neppure rettilineo, ma  curvo per cui, posto di stare sul limitare, ciò che si vede è sempre “l’altra parte”. In questo caso, l’equilibrio non è una scelta, ma un obbligo. E “equilibrio” è la parola chiave della pittura di Verna.

Per ottenere questo equilibrio, che poi significa armonia, pienezza, unità, classicità, Verna mette in atto tutti gli artifici possibili, da quelli ideali e concettuali a quelli tecnici sino ad arrivare ai più minuti accorgimenti esecutivi, il cui scopo è comunque totalmente indirizzato al raggiungimento di questo obbiettivo. Così, dal più ampio concetto di “composizione” alla qualità della “grana” della tela usata per dipingere ogni cosa è collegata e tesa a un obbiettivo che è quello della riuscita, della creazione di un nuovo quadro, legato a tutti i precedenti e contemporaneamente assolutamente unico rispetto a quelli. “Non riesco mai a lavorare a più quadri contemporaneamente – mi ha detto l’artista recentemente -, li devo affrontare uno alla volta”: dimostrazione pratica di come ogni suo quadro sia una specie di “icona laica”, di icona linguistica che, alla pari delle rappresentazioni religiose ortodosse è “di per sé”, e non già per quello che rappresenta, un oggetto sacro. In questo modo il concetto di appartenenza a un ciclo, di lavoro in progress, di sviluppo personale di ogni lavoro – che pure Verna non ripudia, e che sa essere comunque rilevabile nella sua attività, come in quella di ogni altro artista – perde gran parte dell’importanza che gli viene solitamente attribuita, mentre si pone in primo piano l’unicità linguistico-espressiva di ogni singolo quadro. Anche in questo senso Verna è pittore, prima e al di là dell’artista: ogni singolo quadro deve teoricamente essere un “capolavoro” o non essere. Questo concetto (del “capolavoro”) nella cosiddetta “leggenda dell’artista” di impianto romantico, viene considerato come la quintessenza dell’artisticità – ora non più, se non nella vulgata, che comunque mantiene il suo potere definitorio -, ma di fatto trova la sua ragion d’essere e le sue radici nell’attività apparentemente più modesta e “meccanica” dell’artigiano, categoria di cui può far parte anche il pittore. In questo campo, il “capolavoro” è l’opera dimostrativa, la prova di aver saputo mettere in atto tutta la propria sapienza e maestria esecutiva, obbedendo a uno scopo che è quello di rispondere alle sollecitazioni della materia usata, di piegarla ai propri fini rispettandone le qualità, di comporre secondo quella commistione di canone e di fantasia che rende un lavoro “capo”, cioè esempio assoluto da imitare. Con poche varianti teoriche, tutto ciò si può applicare all’opera di Verna, ad ogni suo lavoro, che idealmente potrebbe e dovrebbe essere considerato come una singola monade, senza collegamenti contestuali.

Questa condizione “in sé e per sé” della propria pittura è la sfida più ambiziosa di Verna. Implica infatti l’astrazione massima da ogni contesto extralinguistico, e contemporaneamente  la capacità di penetrare all’interno della disciplina pittorica senza alcuna “stampella”  ermeneutica che si trovi al di fuori di quel mondo compiuto, per non parlare della difficoltà di escludere ogni aspetto storico o cronachistico dalla lettura dell’opera stessa. Ovviamente, anche l’artista sa che ciò non è completamente possibile, e che non esiste l’opera extrastorica tout court, ma ciò che dovrebbe essere possibile è una visione non interamente basata sulla comparazione e sulla contestualizzazione storica, come invece si è soliti fare: ogni opera per se stessa (per quanto possibile) o, al massimo, ogni opera in una costellazione identificata di opere. Questo non per rivendicare anacronistiche “assolutezze”, che suonano ridicole a chiunque (come suona incomprensibile, di primo acchito, il concetto di “monade”, irriso da frotte di studenti superficiali…), ma per scandagliare al massimo grado possibile la categoria dell’”essenza” che, nel nostro caso, è come dire scandagliare l’azione pittorica in tutto il suo farsi.

L’analiticità della pittura di Verna è qui: nel chiedersi sempre cosa ci stia comunicando l’opera mentre la si sta facendo. Certo, è un concetto di analiticità non sempre coincidente, come vedremo, con l’analiticità tutta razionale richiesta alla pittura negli anni Settanta, visto che l’emozione e lo stupore di fronte all’irrinunciabilità della pittura (la definizione è dell’artista stesso) sono parte vitale di questa azione/osservazione della pittura nel suo farsi, ma sicuramente l’aspetto processuale del fare arte e del fare pittura appare in Verna essenziale quanto e forse più di ogni altro artista “analitico”, soprattutto considerando il fatto che la pratica della pittura per lui si rinnova sempre di fronte ad ogni opera, e non diventa mai applicazione di uno “statuto processuale” sempre uguale a se stesso, una volta che questo sia identificato e accettato.

Così, in tutti i vari periodi in cui si può suddividere il lavoro di Verna, si riconoscono tipologie di opere anche diversissime tra di loro, persino in quel (breve) periodo che si sovrappone alla cosiddetta “pittura analitica”, e che per Verna corrisponde agli anni 1970-1973. Di fatto, su una struttura iniziale che l’artista conferisce alla tela che ha di fronte, si innestano le esigenze autonome della pittura che, filtrate attraverso la mano del pittore, possono condurre gli esiti del quadro verso lidi diversissimi, a partire da variazioni iniziali minime, come accade quando ad un bivio ci si trova a scegliere una delle due possibilità, dove magari le strade scorrono accanto, vicine e visibili per un lungo tratto, ma poi inesorabilmente si allontanano, e non si può più decidere di tornare sull’altra via. Una variante chiama un’altra variante, e così via, in una ramificazione espressiva tanto fitta di possibilità da risultare imprevedibile anche a chi frequenta costantemente questo territorio: è questo lo stupore della pittura.

Le varianti dal sapore informale dei primissimi anni fiorentini di Verna (che però sfociano in mostre presso gallerie connotate da un forte interesse nei confronti della tendenza geometrica dell’astrazione, come la Galleria Numero diretta da Fiamma Vigo, e da collettive che casualmente riuniscono giovani artisti che saranno poi protagonisti della tendenze neopittorica e latamente analitica degli anni Settanta, come Riccardo Guarneri e Paolo Masi) si ritrovano ad esempio anche nei tardi anni Settanta e negli anni Ottanta, così come la tendenza a definire lo spazio con dei punti di riferimento o con delle bande che sottolineano la finitezza della tela appartiene sia ai primi anni Settanta come a molti lavori tra i più recenti, in una sorta di repertorio che è vastissimo ma non infinito, come a dire che la pittura impone delle regole che tra i primi corollari vedono la designazione di confini precisi (si badi: per questa pittura sono le regole che portano ai confini, e non i confini predeterminati che costruiscono le regole).

Eppure, in Verna il rispetto per la pittura e di conseguenza la necessità di affrontarla con una forte impalcatura teorica e teoretica – cosa che non contrasta affatto con la dichiarata volontà di “fare pittura” – lo ha costretto al silenzio per molti anni, prima di ripresentarsi, con una seconda e definitiva partenza, nel mondo dell’arte: infatti, pur essendo partito col “piede giusto”, in un ambito sufficientemente mondano e apprezzato, dal 1961 al 1967 praticamente non espone più, interrogandosi non tanto sul ruolo dell’artista, quanto sul proprio ruolo nella pittura e nel mondo dell’arte, ribadendo così l’attitudine contemporaneamente individualista e riflessiva che lo ha contraddistinto per tutta la vita. E’ questo silenzio pieno di dubbi ma anche di curiosità per tutto ciò che in arte suona diverso dal proprio sentire ( Verna è stato ed è un attentissimo conoscitore delle esperienze artistiche più disparate) che gli consente probabilmente di arrivare al nuovo esordio romano con una maturità che stupisce un critico come Cesare Vivaldi che dichiara “francamente splendidi” i suoi lavori esposti nel 1967 alla galleria Editalia, nella mostra “Cinque pittori a Roma” (gli altri sono Vincenzo Cecchini, Carlo Cego, Carmengloria Morales e Emiliano Tolve ). Da quel momento si moltiplicano le occasioni importanti, prima fra tutte l’invito nel 1970 alla XXXV Biennale di Venezia – la prima dopo la contestazione del Sessantotto -, da parte di Piero Dorazio, che era diventato rapidamente un estimatore del suo lavoro (prima del 1967 i due praticamente non si conoscevano, così come è di quegli anni l’amicizia con Carlo Battaglia, probabilmente l’artista che attitudinalmente e professionalmente gli assomiglia di più ). La sala dedicata a Verna inaugura la breve stagione che si potrebbe definire pienamente geometrico/analitica, e che farà sì che l’artista venga annoverato tra i più assidui nelle mostre che a posteriori definiranno quella tendenza, pur esistente. Ma se dell’analiticità peculiare di Verna si è parlato anche tra le righe di questo scritto, non sarà inutile rammentare una serie di episodi, apparentemente legati e relegati nell’aneddotica dell’eccentricità dell’artista  e delle sue tecniche, e invece illuminanti di un modo di pensare e di fare la pittura. Il primo riguarda l’ampiezza in centimetri di certe fasce di colore; il secondo la “grana” della tela su cui si dipinge; il terzo il ripetuto passaggio dall’olio all’acrilico e viceversa, nel corso della sua attività: eccoli, inizialmente senza commenti. Nel 1967, alla prima mostra romana, già citata, Verna presenta quadri dalla geometria libera, in cui fasce rettilinee e spezzate di colore di quattro centimetri di spessore percorrono lo spazio della tela: pur nel successo strepitoso della mostra, li giudica quasi intimisti, e ne è soddisfatto solo quando, allargano nei quadri successivi le fasce cromatiche prima a dieci centimetri e poi a venti, ritiene i quadri finalmente in grado di affrontare anche lo spazio del mondo, oltre che quello dello studio. Secondo episodio: di fronte a un’impasse che gli impediva di terminare un quadro, chiede consiglio a Dorazio, e questo gli risponde che forse dovrebbe cambiare la qualità della trama della tela usata per dipingere: Verna lo ascolta e il quadro riesce. Terzo: nel corso della sua vita artistica Verna sostituisce l’olio con l’acrilico nel 1967, torna all’olio nel 1974, riprende l’acrilico nel 2001 e lo usa tuttora. Ebbene, nonostante la differente portata di ciascuno di questi episodi – il primo riguarda un breve ciclo, il secondo addirittura un solo quadro, mentre il terzo lo accompagna per tutta la vita -, essi sono intimamente legati da quella specialissima commistione di pensiero della pittura così indissolubilmente unito all’azione della pittura da rendere un blu di cinque centimetri diverso da un blu di sei centimetri, e un gesto colorato d’acrilico sostanzialmente – in senso etimologico e figurato – diverso dallo stesso gesto colorato d’olio. Si tratta, cioè, di quelle “varianti” che grado dopo grado portano a opere profondamente dissimili, dal carattere opposto, pur in presenza di descrizioni sommariamente identiche. Per questo “un quadro blu” o “un quadro rosso” non significano assolutamente niente, pur sapendo che per Verna il colore è tutto, come è stato ripetutamente sottolineato, soprattutto da coloro che ne volevano esaltare la vena emotiva, di fronte alle partizioni spaziali che rappresenterebbero al contrario la parte razionale e analitica. Invece il colore può davvero essere tutto, “il” tutto, e non solo una parte dell’attitudine umana per la pittura: solo così si può comprendere l’ambizione di Verna che, pur non disegnando, ma solo segnando talvolta sulla tela qualche confine, per altro labile e sempre contraddetto, affronta in toto la pittura, e non solo la sua parte emotiva. E’ per questo motivo che i tutti i quadri di Verna, dai primissimi a quelli di quest’anno, sono così sottilmente inafferrabili e misteriosi: il colore, la pennellata – o, al contrario, la partizione geometrica e la scansione dello spazio, sempre comunque definite cromaticamente – ci inducono inizialmente a una lettura tutta orientata in un senso, emotiva o razionale, e poi, lentamente ma inesorabilmente, si scoprono elementi che contraddicono quell’interpretazione e addirittura quella sensazione, e ci trascinano in senso opposto, con un movimento pendolare della mente che assomiglia più a un’idea di moto perpetuo che di oscillazione. Se infatti oscillazione è quasi sinonimo di indecisione, il moto perpetuo del pendolo – quello che si otterrebbe in fisica se non ci fossero attriti, resistenze, eccetera – ci parla di spostamenti (percettivi e ideali, aggiungiamo noi, parlando di questa pittura) da un estremo all’altro, ma continui e indissolubilmente legati, dove un polo è impensabile non solo senza l’altro polo, ma senza tutti i punti intermedi: le opere di Verna li prevedono tutti, anche se non li mostrano tutti. Ogni quadro diventa così una prova d’armonia e di equilibrio, tanto che anche quando essi appaiono e sono disequilibrati, lo sono in maniera armonica: ogni quadro, “un quadro alla volta” ancora, a ribadire che la partita si gioca ogni volta, e che il risultato non è per nulla scontato, anche dopo anni di esperienza, perché il pendolo continua eternamente a muoversi, e i punti tra un polo e l’altro sono infiniti. Certo, si riconoscono dei cicli anche nelle monadi di Verna, ora più votati alla riflessione, ora all’emozione: se, ad esempio, i primi anni Settanta sono quelli della riflessione, i pieni anni Ottanta sono quelli dell’abbandono, e la ripresa dell’acrilico in anni recenti potrebbe significare un tempo di decantazione più ridotto tra l’un quadro e l’altro, in modo da poter verificare meglio i risultati di un pensiero continuo. Di fatto, nessuna opera di Verna è così razionale o così emotiva da essere inequivocabilmente schierata in un solo territorio, perché la pittura – come le sua componenti – non è né sentimentale, né razionale, ma contiene in sé entrambe le possibilità, adottate e adattate da chi la fa e da chi la guarda, è quindi non “in sé e per sé”. Da quel lato la pittura è indifferente, chiede solo di essere fatta e guardata.

Claudio Verna lo sa, e dalla sua Giverny di Valle Aurelia continua a dipingere.