Cinque domande a Claudio Verna, in catalogo personale Fondazione Zappettini, Milano, dicembre 2008

Alberto Rigoni – La Pittura è ogni giorno messa in discussione. È accaduto nel passato, ad esempio negli anni precedenti alla Nuova Pittura; accade anche oggi, ad esempio alcuni musei italiani, anche importanti, ospitano raramente se non malvolentieri, puri e semplici “quadri”. Eppure, l’atto del dipingere è, forse dopo l’atto dello scrivere, quello cui con più frequenza ricorre chi desidera fare arte o semplicemente esprimersi. Ciononostante, e benché nessuno si sogni di definire desueti Teatro, Cinema o Architettura, la Pittura deve sempre giustificare la propria esistenza. Non crede che ciò abbia anche il benefico effetto di spinger periodicamente la Pittura alla ricerca della propria ragion d’essere? Lei nel 1970 scrisse: «non ho ancora sentito argomentazioni capaci di condannare a morte la pittura». È ancora di quell’avviso?

Claudio Verna – Certo, sono più che mai convinto che le ragioni della pittura sono “antiche e irrinunciabili”. Ma, proprio per questo, ormai da tempo ho smesso di polemizzare con chi si attarda ancora a metterla in dubbio o, peggio, a dirla superata. Ne esaltano le infinite potenzialità le opere di artisti straordinari e la sua capacità di rinnovarsi continuamente, che è poi l’unico modo per i pittori di essere protagonisti nella tradizione, che altrimenti sarebbe un cimitero di feticci. Non difendo la pittura, mi basta farla.

A.R. – Nella prima metà degli Anni Sessanta, pur continuando a dipingere, Lei ha preferito non esporre. Perché? Riscontrava forse una scarsa sintonia tra la sua opera e il mondo artistico che la circondava?

C.V. – Dopo le prime mostre, affidate all’entusiasmo di una libertà appena scoperta, smisi di esporre per fare chiarezza dentro me stesso e confrontarmi con le altre esperienze, soprattutto extrapittoriche, che vedevo crescere intorno a me. Pensavo a una sosta di qualche mese, restai fuori per cinque anni, durante i quali lavorai ossessivamente, misurandomi con ogni possibile ipotesi. Sperimentai la pittura seriale, provai a uscire dallo spazio virtuale della tela, mi impegnai in un esame accanito delle varie modalità di fare arte e del senso stesso di essere artista. Quando tornai ad esporre, nel 1967, ero certo delle mie buone ragioni; e cioè che potevo esprimermi soltanto con il colore, ero pittore. Ma mi scontrai subito con una situazione che sembrava aver deciso la morte della pittura. Polemizzare fu inevitabile.

A.R. – Lei non ha mai rinunciato al colore, ne ha esaminato le possibilità sia “piegandolo” al ruolo di costruttore della superficie, sia allentando il controllo. Di quante fasi si è costituito il suo rapporto con questo che lei ha definito «il sovrano assoluto» della pittura, dagli Anni Settanta ad oggi?

C.V. – Permettimi di citare Dora Vallier quando dice che “a differenza della scultura che occupa lo spazio in quanto forma tangibile, la pittura occupa lo spazio in quanto colore”. Ne deduce che “è nella struttura del colore e non della forma che si devono cercare i significati della pittura”. Ecco, in questo senso, la mia ricerca non ha avuto fasi diverse, ma è una lunga, ininterrotta indagine sulla struttura del colore. Posso aggiungere che, con tutti i miei limiti, ho sempre cercato la saturazione massima del colore, cioè il massimo della sua potenza luminosa.

A.R. – In questa mostra è esposta un’opera, Ricognizione, che riprende un tema da lei già affrontato negli Anni Settanta, cioè quello della struttura, della trama che sta sotto/sopra la superficie invasa dal colore. È quasi come se la sua pittura, o almeno parte di essa, avesse una circolarità che la porta a riflettere su se stessa?

C.V. – Credo che sia proprio così, anche se non sempre ne sono perfettamente consapevole. A volte, voglio dire, mi rendo conto solo a quadro finito di aver rimesso in gioco un tema affrontato anni prima: naturalmente sono diversi il punto di vista, la tecnica e quindi il risultato, ma è come se la ricerca, nel suo andamento a spirale, avesse la necessità di indagare ancora, di trovare nuovi spazi. Nel caso di Ricognizione è il titolo stesso che mette in risalto questo processo.

A.R. – Quando si scorre la carriera di un pittore, magari sfogliando un catalogo antologico,non ci si rende conto di come in poche centinaia di pagine si tenti di esemplificare il lavoro di decenni. Lei da quasi cinquant’anni ogni giorno si reca nel suo studio, si pone davanti alla
tela e torna a riflettere sullo spazio, sulla superficie, sul colore, sulla stessa ragione d’essere della Pittura di cui dicevamo sopra: quanto margine di riflessione trova ci sia ancora? Quanti spazi inesplorati intravede nel suo lavoro?

C.V. – Lo straordinario privilegio di fare il pittore (l’artista) consiste proprio in questo: nel sapere che gli spazi inesplorati davanti a te sono infiniti. Puoi pure avere pause, vivere momenti di crisi ma se hai conquistato fiducia in te stesso sai che puoi uscirne, che tutto è sempre possibile. Tanti anni di lavoro sono lì a testimoniarlo e ti spingono a tentare nuove strade. Io non ho mai avuto il complesso della pagina bianca, ma sempre la sensazione di avventurarmi in un territorio ricco di promesse, dove le contraddizioni sono preziose invece di essere di ostacolo, dove la libertà è l’unica regola. Naturalmente non sempre è andata così ma cocciutamente, caparbiamente, continuo a crederci.