2007 - Anna Imponente Claudio Verna o della leggerezza dell’essere, catalogo antologica Opere 1967 – 2007, Museo Nazionale d’Abruzzo, Castello Cinquecentesco, L’Aquila, dicembre 2007

In una foto scattata a Guardiagrele nel 1939, quando aveva solo due anni, Verna appare in un plain air estivo agreste, a for­ti contrasti di luce ed ombra, di netto sapore michettiano: pro­tetto dal calore dell’abbraccio paterno, in un campo di spighe mature confinanti col declivio scosceso di un colle. Una della chiavi per compren­dere l’imprinting del suo lavoro sembra ritrovarsi in questa te­nera immagine d’infanzia, sen­za voler con questo cedere a poetiche naturalistiche o riven­dicare il discorso antropologico di un precoce genius loci. Con assiomi più certi che i da­ti anagrafici prestati agli astri, si può tuttavia osservare come nella fase più recente del suo la­voro si riconosca la percezione originaria di un felice paesaggio esteriore.

Ben presto avrebbe commuta­to quello abruzzese con altri luoghi di elezione, geograficamente prossimi, la Toscana e poi l’Umbria, per canalizzare in energie differenti il flusso di immagini ariose e solari delle sue visioni primigenie.

Verna sperimenta inizialmente delle composizioni pittoriche strutturate da un neoastrattismo che, all’esordio romano del1968, un critico militante qua­le Cesare Vivaldi riconosceva come “costruzione geometrica che serve il colore, anziché es­sere servita” rivelando “quan­to fuoco bruci tra le orditure di meccanismi formali così elabo­rati e impeccabili, quanta li­bertà sia sottesa a un ordine mentale così assoluto”. E “Mol­to libero” era già il titolo di un’opera che valeva anche qua­le manifesto d’intenti, ben oltre l’esercizio della razionalità del­la visione.

All’avvio degli anni Settanta prevaleva una diffusa volontà ideologica, comune in Italia anche ad altri artista, da Giorgio Griffa a Marco Gastini, Pino Pinelli e Carlo Battaglia, che non formarono gruppo, di condividere una tensione este­tica diventata scelta di campo. Verna si affida inizialmente al ri­gore programmatico di una geometria elementare, di gran­de fascino intellettuale, che ave­va maestri in Malevich, Mondrian e Ad Reinhardt. Per rifon­dare lo statuto e il linguaggio stesso dell’arte occorreva puri­ficarla dagli umori e dal sog­gettivismo informale, animarla da una tensione verso l’essen­zialità che sfiora l’assoluto.

La “nuova pittura” si afferma come esperienza autonoma o “pittura pittura” e, per un’ambigua metafora tautologica “è quello che è”, diventa la nuo­va utopia di un’azione disinte­ressata nel mondo. Negli anni di piombo, dei movimenti po­litici giovanili e del femmini­smo, il desiderio di destruttura­re passava dalla società all’arte, come un fresco vento rivolu­zionario. Per Verna la pittura prende potere da una ricerca af­fidata al cromatismo puro: la presenza alla Biennale venezia­na del 1980, agli albori della transavanguardia, indica il rag­giungimento di una piena ma­turità. Vittorio Fagone nota co­me ” le opere più recenti se­gnano una svolta coerente del suo percorso d’artista. Il colore vi conserva la densa saturazio­ne ma acquista una più duttile mobilità, una capacità di libe­rarsi gioiosamente dentro chia­re e aperte stesure. Dissonanti e luminose le larghe superfici ap­paiono ora animate da una ve­loce e sapiente effusione cro­matica”.

I quadri costruiti a pennellate mostrano una fisicità, una pel­le e un corpo fatto di soli colo­ri che esplicitano i meccanismi che li compongono, li celebra­no dinnanzi ai nostri occhi con un movimento aperto, post­moderno. La campitura della tela, che è fragile e disponibile come una composizione scritta, e ben ha visto Fabrizio D’Amico un rapporto che lega la sua esperienza a quella di Corpora, viene finalizzata, secondo l’arti­sta, ad “identificare lo spazio in quanto colore”. Quando Verna scopre che è autoportante, che ha la libertà di essere se stesso, può decidere altre strategie che lo sostengano. La superficie ac­quisisce cangianze inattese, nuonces indescrivibili, diviene un campo di scandagli emo­zionati, di profondità stratifica­te, dove le pennellate, senza asperità, segnano il tempo di uno spazio-evento colorato. L’opera cede a! flusso della tem­poralità e rifiuta ogni conden­sazione in forma statica. Se le opere dì Verna, soprattutto quelle alla svolta del secondo i millennio, non si possono iden­tificare con la rappresentazio­ne dì un universo reale, con l’u­miltà di un anacoreta, l’artista intuisce, comunque, le leggi di natura, cerca una sua verità at­traverso una nuova condizione della pittura. Il suo immagina­rio, quindi, non doppia il mon­do, non lo descrive con animo contemplativo, ma lo reinven­ta. Marc Rothko definiva l’atto creativo del dipingere come l’avventura in un mondo sco­nosciuto, ma che lo faceva approdare nella vertigine del vuo­to, del nulla, o nothingness.

La nuova libertà di Verna diventa l’assenza di fisicità: in tempi ma­turi consegue lo spazio di una natura parallela, autonoma, ele­mentare, eppure avvolgente, atmosferica, densa di sapori sal­mastri, di bagliori di ghiaccio e dei brividi notturni dei boschi. L’uso inattuale della pittura di­venta esplicitazione di una mi­tologia individuale, ricerca di una naturalità raggiunta come essenza. Questo traguardo non è stato raggiunto per strappi improvvisi; è il lento raffina­mento di un metodo che ha tro­vato modo di esprimersi nel cor­so degli anni, se è vero, come dice l’artista, che ogni quadro nasce dal precedente e “si rifà tante volte lo stesso quadro per ottenere, come un attore che prova tante volte la naturalez­za dell’ultima recita”. Il peso della tradizione si è tramutato nella responsabilità del fare: con la sua fiducia estrema nella pit­tura, immette nella percezione soffice di un colore vaporoso, soffiato, in cui galleggiano le emozioni dell’artista. Dentro l’azzurro, in un Viaggio nel bian­co tra // noto e l’ignoto dove Suo­ni dal fondo, Di incerta definizio­ne sono i titoli che accompa­gnano le tele più recenti: aniconiche, mostrano in atto uno specifico pensiero pittorico, pari ad un ideogramma che rappresenta l’idea di un ogget­to senza esprimere il nome. Stabiliscono una simbolicità tra la forma, la stessa tecnica dell’espressione artistica e il senso ultimo di uno spazio aperto sul mondo. L’effetto di illusionismo ottico si caratterizza per una propria energia interna che si propaga all’ambiente dove si collocano, e diventa come una grande, unica installazione, una dream house, dove gli spettato­ri possono rilassarsi in un piace­vole viaggio dei sensi. Serve an­che a questo il potere demiur­gico degli artisti, ultimi medici dello spirito, a elogiare la leg­gerezza dell’essere, nel caso di Verna sorretto dalla regola che corregge l’emozione Solo co­sì, com’era anche per l’etica ari­stotelica, “il bene supremo og­getto di azione è la felicità”.