In “La nuova pittura in Italia 1972 – 1978”, Fondazione Zappettini, Chiavari, ottobre 2007

1. Quale fascino ha esercitato su di Lei la pittura per far sì che essa venisse da Lei preferita all’epoca ad altri medium artistici come mezzo espressivo principale?

2. Di che tipo era all’epoca il Suo interesse verso il supporto, il colore, gli strumenti? E oggi?

Avevo sedici anni quando vidi, casualmente, una mostra di pittura allestita da un artista, a me sconosciuto, nel retrobottega di un negozio di mobili: ne ebbi una emozione tale che tornai a visitarla tutti i giorni, fino a stordirmene. Quando chiuse, una settimana dopo, sapevo che la mia vita era segnata. Ancora oggi, non ho coscienza piena di quel turbamento, di quell’amore così assoluto che travalicava, questo lo capii subito, i confini dell’adolescenza.

Non presi nessuna decisione, non mi posi nessun problema: ero semplicemente entrato in sintonia con qualcosa di misterioso e sconosciuto che (forse) era già in me, o verso cui ero inconsciamente proteso. Se questa è la vocazione di cui ho sempre sentito parlare, allora posso dire che mi prese per mano, per caso, in un negozio di mobili. E non aveva la voce severa e terribile di chi impone scelte, ma il volto enigmatico e affascinante del colore.

Poi, lo studio mi avrebbe messo a confronto con i problemi della ricerca, della consapevolezza di sé e del rapporto con la tradizione e l’innovazione. Ma alla base sarebbe sempre rimasta la convinzione profonda e irrinunciabile che mi sarei potuto esprimere soltanto con il colore, e quindi con la pittura. Amo moltissimo la scultura, mi affascinano le nuove modalità di espressione offerte dalla tecnologia o proposte dalla libertà e dall’invenzione di tanti artisti, specie dei più giovani: ma non ho ancora trovato un mezzo più duttile e ricco della pittura, che mi sia congeniale per affrontare e scandagliare quell’universo parallelo e segreto che è la vera realtà dell’arte.

3. Nel Suo lavoro, pensiero ed esecuzione hanno un ruolo paritario o trova più importante uno rispetto all’altra?

Per quanto mi riguarda, il termine esecuzione è improprio, perché rimanda ad un prima e ad un dopo, o comunque all’abilità nel tradurre qualcosa in qualcos’altro: parlerei piuttosto di prassi, cioè di un processo che si invera nel suo farsi. Pensiero e prassi, allora, non sono termini in contrasto o in alternativa tra loro: sono aspetti inscindibili dello stesso problema, di un unico corpo. La pittura, nel mio caso (ma non solo) si nutre e vive del rapporto continuo tra questi elementi (e di tanti altri ancora), del loro fondersi, della loro alchimia.

Il talento, l’abilità sono valori da coltivare, ma da soli portano fatalmente su posizioni epigoniche rispetto a codici precedenti; d’altro canto, il pensiero è fondamentale, ma da solo genera sterili tautologie, se non mostri.

4. Può oggi a distanza di anni definire l’importanza e l’efficacia che ebbero i testi dei principali critici coevi? E quale fu invece l’importanza e l’efficacia degli scritti teorici degli artisti stessi?

5. Nel 1976., in occasione della mostra I colori della pittura, si convenne che «a differenza della Conceptual Art, la Pittura non ha ancora trovato una sua definizione precisa». A distanza di 30 anni, secondo Lei quella definizione è stata trovata? Se sì, quanto ha contribuito l’esperienza della Nuova Pittura e Pittura Analitica a tale risultato? Secondo Lei, la Nuova Pittura in quanto situazione italiana nonché i suoi protagonisti sono stati all’epoca sottovalutati, sopravvalutati o hanno avuto ciò che si meritavano?

Forse la vera importanza dei testi scritti dai critici e dagli artisti negli anni ’70 consiste, paradossalmente, proprio nel fatto che non si riuscì a trovare una “definizione precisa” di quel movimento che è passato come Pittura analitica o Pittura – pittura o Nuova Pittura. Innanzitutto, perché non si trattò di un movimento organico o organizzato, ma di un ribollire di esperienze individuali, di voci molto diverse e contraddittorie: ma, vorrei aggiungere, vitalmente e fruttuosamente contraddittorio.

Critici e artisti diedero fondo a tutta la loro intelligenza e passione per armonizzare posizioni che avevano in comune, soprattutto all’inizio, solo una totale fiducia nella pittura e nelle sue possibilità. Condizione e premessa di questa convinzione era, per tutti, la necessità di riesaminare lo statuto della pittura, la sua storia, le sue ragioni allora negate con arroganza. Ognuno di noi al fondo, seguiva un suo percorso attingendo alla propria esperienza e alla propria sensibilità: cioè diventammo compagni di strada per necessità, ma senza mai rinunciare alle proprie, personali caratteristiche. E questa è la ragione per cui nessuno sentì di poter aderire pienamente alle teorie che seguirono e che in qualche modo ci travalicavano. Ogni artista è custode geloso della propria storia e delle proprie idee e non ama essere apparentato ad altri se, prima e, soprattutto, non viene capita o rispettata la sua individualità (originalità?).

Personalmente mi impegnai in un riesame degli elementi costitutivi della pittura (colore, spazio, luce, segno, gesto, dimensione, supporto, ecc.) per riconquistare la mia libertà, confrontandomi continuamente con tutte le altre esperienze coeve, anche le più lontane da me. In questo il dialogo con gli artisti cosiddetti concettuali fu importante, ma gli esiti furono molto diversi. Mentre i concettuali, almeno i più rigorosi, consideravano fondamentali solo le idee e non anche il modo in cui queste si sono sempre manifestate, io mi convinsi che l’opera d’arte, e la pittura in particolare, può nascere solo dalla sintesi di pensiero e prassi, lasciando spazio e anzi dando il massimo valore all’emozione, all’imprevedibile, al mistero.

L’esperienza della nuova pittura è stata utile? Certamente si! Ci ha fatto conoscere, ci ha rinforzato nelle nostre convinzioni, molti di noi hanno trovato la loro strada e raggiunto risultati notevoli.

Che siano a tutt’oggi sottovalutati, è fuori da ogni ragionevole dubbio.