1999 - Lorenzo MangoI doppi, catalogo personale Museo Laboratorio di Arte Contemporanea. Università “La Sapienza”, Roma, giugno 1999

Chiamare “quadri doppi” e non dittici i lavori che espone in questa mostra non è, per Claudio Verna un vezzo lessicale ma corrisponde ad una ragione profondamente meditata. Il dittico -etimologicamente – è un quadro piegato in due, una composizione divisa in due zone distinte; il doppio invece gioca sulla dialettica di due corpi separati che, entrando in relazione tra loro, isti­tuiscono una nuova dimensione compositiva. Nel “doppio”, l’opera non risulta dalla distinzione di un’unità originaria, ma dal rapporto tra due tele che, rinunciando alla loro reciproca estra­neità, vanno ad intessere un dialogo.

Si tratta, insomma, di qualcosa di più e di diverso rispetto ad una opzione tecnica, è, piuttosto, una soluzione formale o, ancor meglio, costruttiva che istituisce una sorta di principio macro­strutturale, di condizione preliminare che sovrintende alla realizzazione dell’opera. È una nozio­ne logica, allora, di quella logica tutta immanente alla pittura che accompagna da sempre Verna nella sua avventura d’artista. Basta guardarsi all’indietro per trovare già nel 1968 un “Doppio acrilico” o nel 1980 “Feritoia” e “La tenda di Gengis Khan”, tutti lavori doppi, profondamente segnati, nella loro identità, da questa scelta compositiva.

Negli ultimi anni, però, e ancor di più negli ultimi mesi, la frequenza con cui il tema del dop­pio torna lo qualifica come un centro di interesse privilegiato. È come se nel gioco di rispecchiamenti, nel raddoppiamento del quadro Verna scoprisse una via nuova di investigazione del linguaggio della pittura. Poste una di fronte all’altra, le superfici dipinte sono spinte a mettere in discussione la loro identità formale, dando spazio – o negandolo – agli elementi che le costituiscono.

Ne vien fuori un progetto composito entro cui è possibile cogliere diversi modelli formali, di­verse opzioni compositive, ad ognuna delle quali è affidato uno specifico significato. In “Pagi­ne consentite”, ad esempio, ad emergere è il gioco della simmetria entro cui si rispecchia il segno colore. Nel recentissimo “II rosso e il bianco”, invece, si istituisce tra le due tele un le­game di opposizione. La metà bianca e quella rossa sono nettamente distinte, apparentemen­te indifferenti l’una all’altra. Ma lo squillare della nota alta del bianco e l’inabissarsi nel profondo del rosso sono esaltati dal confronto delle superfici dipinte, messe in uno stato dì vibrazione percettiva dalla linea di demarcazione che le divide e le unisce. Mentre in “Enig­matico” il gioco della opposizione si ripete – vissuto stavolta all’insegna della trasparenza e della luminosità – in altri momenti Verna gioca l’opposizione secondo un paradigma più ambi­guo. Accade, allora, che in “Stagione precoce” le due metà dell’opera sembrino estranee l’una all’altra – mentre invece rispondono ad una logica simmetrica mascherata dallo scarto croma­tico – o che, all’inverso, in “Oltre la soglia” l’immagine solleciti un effetto di simmetria che, a ben vedere, risulta essere solo apparente.

Il tema della simmetria torna ancora in lavori come “Pittura scontrosa” o “II lago dei suoni”. Qui il raddoppiamento dell’immagine appare più regolare anche se, a ben vedere, non si tratta di una soluzione rigorosamente geometrica, dandosi, piuttosto, come suggestione ingannevole. Al­trettanto affidata alla dialettica tra apparenza dell’immagine e consistenza della costruzione è la natura delle due “Terre arse”, opere in cui la materia pittorica sembra distendersi in una fluidità di scrittura quasi indifferente al taglio centrale che distingue in due il quadro. Eppure quella li­nea arbitraria individua comunque una cesura, un attimo di silenzio, di discontinuità, un taglio di ritmo, segnalando la doppiezza della composizione. Resta un’ultima soluzione da verificare, quella in cui – come accade in “Lo scoppio” o in “Tre per due unità” – le due metà accolgono un analogo segno cromatico, il quale, però, ha subito un processo di rotazione, disegnando una nuova disposizione nello spazio e definendo un ritmo sincopato all’insieme.

Leggendo le opere da questa angolazione emerge la natura particolare dei “quadri doppi”. Da un lato, infatti, si evidenzia la caratteristica mentale dell’operazione, che si concretizza nell’intenzione progettante che l’artista immette nel processo costruttivo; dall’altro non si può non notare lo scacco che questa intenzione è destinata a subire da parte di una logica della varia­zione e della libertà compositiva che è tutta del quadro stesso. Da un lato, dunque, la mente progettante, dall’altro la qualità sensibile della pittura. È una “logica doppia” che risalta in que­sti lavori con tutta evidenza ma che, a ben vedere, è radicata profondamente nel cuore stesso delle modalità operative di Verna. La critica, d’altronde, su questo aspetto si è spesso pronun­ciata a cominciare da Tomassoni, che già nel ’68 si sofferma sulla opposizione concreto/oggettivo mentale/astratto, o da Menna che parla dì un “rapporto in ogni modo problematico che si in­staura tra le ragioni del soggetto e quelle istituzionali del linguaggio”; per giungere, infine, in anni recenti ad Accame che mette in evidenza la dialettica tra rigore costruttivo e libertà della variazione e a Meneguzzo che parla di un “equilibrio difficile ma stimolante” tra emozione e controllo, tra entusiasmo e razionalità. Si può citare, al proposito, anche il caso di D’Amico che tende a spaccare in due il corpus della produzione di Verna tra un momento “prigioniero” di una astratta progettualità mentale (gli anni 70 per intenderci) ed uno (le evoluzioni più recen­ti) in cui più libero può fluire il sentimento dell’emozione.

Linguaggio e soggetto, dunque, costruzione ed emozione rappresenterebbero gli estremi dialet­tici entro cui si muove il linguaggio di Verna. Accanto a questi, però, mi sembra di poter coglie­re una ulteriore dimensione dialettica, o doppia: quella tra ragione costruttiva del soggetto e ra­gione costruttiva dell’opera, o, più per esteso, della pittura. In tal caso la opposizione non risie­derebbe più solo, o tanto, nel confronto tra la condizione mentale del fare e la ricaduta emozio­nale della sfera personale, quanto tra due istanze entrambe costruttive: quella della intenzione dell’artista e quella della intenzione della pittura. Le quali entrambe – ciascuna nella sua auto­noma specificità – concorrono alla realizzazione dell’opera. Nel confronto col linguaggio, l’arti­sta è, in qualche misura, “costretto” a perdere se stesso, a tradurre la sua personalità (sia come sfera emotiva che come ragione progettante) in una nuova identità, quella, appunto, della pittu­ra, dotata di ragioni, sentimenti ed emozioni che eccedono quelle di chi operativamente agisce in quel momento. Lo stesso Verna, parlando di come giunge alla veste finale di un quadro, ci soccorre in questa direzione: dapprima c’è la mia intenzione – dice – in un secondo tempo vien fuori quella del quadro, che mi obbliga a seguirla. Il punto di incontro tra queste due intenzioni, tra queste due forze, è il momento più vitale del processo creativo. È il momento in cui il pitto­re non è più “libero” e, proprio per questo, raggiunge la più compiuta libertà, quella da se stes­so. È il momento in cui prende corpo la forma dell’opera, la quale, evidentemente, si afferma non come risoluzione statica, come definizione compiuta, ma come processo instabile di tensio­ne, come dynamis di forze in opposizione, come ritmo. Proprio come viene messo in piena evi­denza, sul piano formale, dai quadri doppi, i quali si rivelano, adesso, quasi come una sorta di involontaria porta di accesso al laboratorio segreto del pittore.

Il processo “doppio” di genesi della forma può condurci, però, ancora più avanti. La forma stes­sa è per sua natura doppia: chiusura sulla fase fabbrile della costruzione dell’opera ed apertura alla “riscrittura” della visione. L’astrazione cui Verna fa riferimento non è negazione del mondo, non è cancellazione della percezione per rifugiarsi in un anfratto tutto mentale (e in fondo con­solatorio) del linguaggio; è piuttosto un esercizio della visione ai suoi limiti estremi, oltre il dato banale del fenomeno. La superficie, che è il luogo d’elezione della forma, diventa così, come scrive Sinisi, “una sorta di barriera, attraversata e percorsa da forze e pulsioni che rinviano a qualcosa che è al di là e al di qua della soglia del linguaggio”. La superficie è soglia, la pittura stessa è soglia, luogo di metamorfosi della visione, luogo in cui le cose del mondo perdono la lo­ro consistenza di immagine e si traducono nella luce del colore puro, del colore che si fa forma senza mediazioni. Ma il mondo non resta estraneo al lavoro di Verna. La sua è una pittura salda­mente ancorata alla percezione sensibile, alla materia che lo circonda. Solo che il mondo – nello sguardo del pittore – non si appaga della superficie delle parvenze, non si risolve nell’immanen­za delle cose e delle immagini, ma si rivela come occasione dell’invisibile.

La visione oltre il vedibile, la percezione dell’impermanenza delle forme, la dialettica tra costru­zione ed emozione e quella tra intenzione dell’autore ed intenzione dell’opera, intese come qua­lità fondanti del linguaggio pittorico (e più in generale artistico), configurano un orizzonte del discorso significativamente prossimo a quello del primo grande “pensiero del doppio” dell’este­tica contemporanea, quello di Artaud. Il teatro – scriveva Artaud – è il luogo del doppio: “non di quella realtà quotidiana e diretta di cui a poco a poco è diventato la copia inerte, vana quanto edulcorata, ma di un’altra realtà rischiosa e tipica, dove i principi, come i delfini, una volta mo­strata la testa, s’affrettano a reimmergersi nell’oscurità delle acque”. La pittura, così come ce la presenta Verna, ci suggerisce suggestioni analoghe. Non in nome del vigore, della esuberanza o della drammaticità della espressione ma in quanto istituzione di un rapporto non illustrativo o rappresentativo con la realtà. Anche la pittura, possiamo concludere, è un doppio, ma doppio come abbandono della mimesi, come avventura dello sguardo. Se una lezione la grande astra­zione del nostro secolo ci trasmette non è quella di uno stile ma di un esercizio della visione. Vedere nelle cose la trasfigurazione delle forme, lasciar scorrere l’immagine, perderla, per con­quistare l’autentica (quanto instabile) percezione sensibile del ritmo, della dynamis che pulsa nella realtà fenomenica. Verna è impegnato da sempre in questo “tuffo” artaudiano da cui rie­merge, ogni volta, più saturo di colore e di stupore.