1998 - Marco GoldinL’arco nel cielo in monografia Electa, antologica a Palazzo Sarcinelli, Conegliano, dicembre 1998 – gennaio 1999

L’arte continuerà sempre
a smentire ogni sua definizione.
Claudio Verna

Qualsiasi critico che si sia occupato, soprattutto in questi ultimi anni, di Claudio Verna, e naturalmente mi includo in questo gruppo, si è trovato a porre l’accento sulla sua capa­cità di esercitare una continua, e ormai lunga, riflessione sul proprio lavoro. Cosicché le sue parole scritte sono entrate, e tuttora entrano, a far parte di quanto sulla sua pittura si è detto. Ora, vorrei invece provare a raccontare questa storia come se quelle parole non fossero mai esistite. Provare a raccontare insomma, nel modo che più mi è vicino, la storia soltanto di un pittore e dei suoi colori. Perché alla fine, per lui come per ogni artista autentico, a parlare davvero sono i quadri, non altro.

Potrebbe sembrare strano affermarlo proprio per un pittore, ma per Verna la pittura non è un linguaggio, è il linguaggio; il modo della comunicazione, ineliminabile, e dopo viene solo la morte, l’assenza di tutto, il vuoto, lo sprofondare dove nessu­na conoscenza ha potere. Come se nel mondo non esistesse al­tro strumento che questo. Non è possibile dire alcuna parola su questo immenso poema del colore senza partire da qui, dal pensiero che la pittura sia, che rappresenti anche non se raf­figuri. Che indichi, scopra e riscopra, vesta e rivesta il cuore del mondo, ne cerchi con ostinata passione il punto, con stre­mata dolcezza la temperatura. L’occhio non è mai per sé solo, ma soltanto dalla sua fonda unione con l’anima trae compiuta­mente il suo significato. Così, e solo così, la pittura è miraco­lo, rivelazione, costruzione e dubbio.

Rivisto sotto questa luce, l’intero percorso di Verna ha una sua coerenza intima; unitario più di quanto non appaia a uno sguardo distratto, perché tutto ciò che si vede oggi nei quadri stava già contenuto, e subito viveva, nelle prove inaugurali del 1959. Per pochi altri artisti, che hanno attraversato da prota­gonisti la stagione difficile degli anni sessanta e hanno poi fatto parte dei molti gruppi organizzati nel decennio successivo, si può dire della medesima traccia sotterranea, che al di là della costruzione, della segmentata purezza di forma, della sua scandita cesellatura, continuamente è riemersa nel corso del tempo. Dapprima come un canto libero, fortemente preda del colore, poi tutta scavata dentro le algide strutture della men­te, infine poco per volta dilagante, coprente in ogni modo lo spazio dell’assenza della fisicità. Come se il grande approdo di questa pittura, giusto vent’anni fa, fosse stato preparato da sempre; sentito e presentito fin dalle prime tempere, i cromo­racconti, quelle stesure del colore mai abbandonato e invece seguito passo dopo passo con la mano, nell’esatta inserzione di un tono, del suo peso e opalizzata rifrazione.

Si vedono oggi i quadri e, al loro interno, si colgono i segni, gli avvisi, i lievi pronunciamenti, oppure gli affioramenti, di ciò che sarebbe stato. Nulla è venuto dal caso, in una ricerca che già Mario Novi, nel 1961, negli anni fiorentini, individuava co­me “animata da una dote individuale di autocontrollo, di lim­pidezza razionale”. Dote che contraddistingue ancora oggi il lavoro di Verna, essendosi però modificati i confini della ri­cerca; o forse non modificati, ma appena variati, oppure so­vrapposti gli anni alle visioni, la memoria al destino. Perché questo, in larga misura, ne è il tratto distintivo: aver lasciato che non tutto affondasse nel mare limaccioso della costruzio­ne concettuale, dove l’idea dell’opera era già opera, e l’opera non era più materia autorizzabile. Questa fiducia nella capa­cità di dire ancora, di dire sempre, di non permettere che vin­cesse il silenzio plasticato del nulla. Certo, Verna ha su que­sto molto scritto, come se in quegli anni difficili per la pittu­ra, la pittura non bastasse più a testimoniare, e la sua nega­zione avesse bisogno, per essere vinta, di un diverso aiuto. Eppure le parole stanno in una posizione diversa rispetto all’opera, non ne sono il completamento, o il prolungamento, ma soltanto sono a essa compagne. Per cui resta la fedeltà al linguaggio più vero, la genuflessione quasi dinanzi al colore, secondo le belle parole di Accame: “L’esigenza profonda di af­fermare la centralità del colore, sentita come l’identità stessa della pittura, raggiunta e rivelata non come rappresentazio­ne, ma come pura esistenza”.

E appare per me un miracolo vedere come, passato il tempo del debito con l’Informale, l’amore verso de Staёl a cui quasi subito dedica un omaggio, il lungo transito dentro la più algi­da stagione degli ismi sia vissuto con un forte senso di uma­nità, e quasi di moralità. Perché il fare pittura è sempre stato il punto di approdo, il desiderio, la passione, la salvezza, il mo­do della confessione. Del resto, che questo aspetto fosse ben chiaro fin dagli anni d’esordio, lo testimoniano direttamente le parole di Umberto Baldini, che presentò nel febbraio del 1960 la prima personale alla galleria Numero di Firenze: “Quella specie di ganglio vitale che accentrava e costringeva tutte le sue vibrazioni sia formali che cromatiche si è sciolto in aper­tura ampia, si è steso in una nuova densità canora, in un nuo­vo equilibrio che sottintende un intenso valore morale, quasi catartico”. E l’anno seguente, recensendo in “La Fiera Lette­raria” la mostra personale alla galleria L’Indiano, sempre a Firenze, con Riccardo Guarneri, Giancarlo Politi così scrive­va: “Claudio Verna è uno dei pochissimi pittori italiani che, pur giovani ma già affermati, si accosta alla pittura con umanità. Una umiltà piena di candore, di pigrizia, di solitudine. Una umiltà da anacoreta che cerca però la grazia e il raptus nel co­lore della luce mediterranea e in quei gialli infuocati che tan­to amava Van Gogh o in quei rosa mistici da ricordare certe pallide malinconie di Gerard de Nerval”.

Con quanta pacata ostinazione ha continuato, da allora, a tes­sere la sua tela, annodando un filo all’altro, senza apparente­mente scomporsi quando le acque si agitavano, preferendo il silenzio dello studio al chiasso delle esposizioni inutili, la ri­cerca quadro dopo quadro al mostrarsi a ogni costo. Forse non è inutile sapere dove Verna abiti, conoscere i luoghi della sua pittura, gli spazi, i tempi della sua giornata. Luoghi che sono non luoghi, distanze, fessure della luce, oblò affacciati sul bo­sco, piccoli come lingue di fuoco accese verso sera. E le sta­gioni cambiano e niente resta come prima. Questa pittura è dall’assoluto differito, dalla variazione, dall’accensione di una luce eterna ma anche dal cercare di tenere vivo ancora una volta un bagliore, e quando si è spento riaccenderlo. L’ho appena detto, forse non è inutile lasciare la strada che da Spoleto conduce ad Acquasparta, e appena dopo la metà del tragitto prendere a sinistra, in salita, per il piccolo borgo di Rapicciano, dove Verna abita con la compagnia, nel borgo, di poche persone e fino a qualche mese fa anche di un cane, Gorky, che gli hanno ammazzato a fucilate dentro il bosco da­vanti casa. Chissà, sarà sempre per il mio desiderio di curio­sare, di conoscere delle persone ancora qualcosa di più, ma tutto, in questa casa, mi sembra fondamentale per guardare meglio poi la pittura. E non solo quella di adesso, ma anche quella di quarant’anni fa, che forse aveva desiderio di essere dipinta proprio in questa casa.

Qui dove niente, attorno, apparentemente sembrerebbe rac­contare anche una sola sillaba di questa pittura. Luogo che si direbbe più adatto a Morandi, al limite a Guccione se, anziché il bosco, fuori dalla finestra vi fosse l’azzurro scalfito del mare. Eppure Verna dipinge qui. Immagine che non è immagine o colore che nasce da un’immagine? O colore che è da sempre, sprofondato, e per ciò che si vede affiora, affiora e riaffiora, cosa vista e cosa mai veduta prima. Ho in mente anche un al­tro grande pittore, Piero Ruggeri, che dipinge sul limitare di un bosco. Ma quanto la sua è pittura di graffi, di gambe e braccia urticate, di sterpaglie incise nella carne, tanto quella di Verna non possiede una “naturalità”, e nasce già come essen­za, distillato di cielo, priva di quella lotta che le ha fatto de­cantare quasi subito il debito informale.

Eppure questo bosco sprigiona colori, si offre nel variare dei lumi, è una dissonanza entro l’armonia. È il bosco dei segreti, dei prodigi. Sta lì, in fronte a lui, dentro e tutto intorno, nel medesimo modo in cui è da sempre. È una cosa dell’eternità, se l’eternità, da qualche parte, esiste, o se l’infinito, invece, è solo un pensiero, una variabilità del respiro, una paura o un estremo soprassalto della felicità. Non voglio condurre il mio discorso troppo lontano da quello che Verna è, né portare lui verso il territorio dell’inapparente riproducibilità del bosco. Penso semplicemente a quel bosco come a un grande fiato che da la vita, un fatto dello spirito. Ha detto, qualche volta, il pit­tore di come gli sia accaduto di dipingere un quadro mentre la stagione avanzava, o declinava. Dipingerlo così, perché non sappiamo mai da quale punto, o posizione, o postazione di ve­detta e di assalto e combattimento, sia giusto guardare. Guar­dare, più che vedere. Dove comincia, dove s’infiamma, o se la fiamma è al suo culmine o invece il culmine è già stato, e allo­ra e più l’ombra del lume, il suo schiacciarsi non sulla terra secca ma dentro l’aria. E dipingere allora l’ombra nell’aria, for­se l’ombra dell’aria.

Verna è così. Quando mette colori sulla sua tela, si accorge poi, riconquistata la memoria del vedere, che nel bosco c’è l’autunno, che il verde si spegne dentro il mare d’ocra. Ma questo non è naturalismo a effetto; non è, neppure, naturali­smo dell’astrazione. Non è formula, è sostanza, non è concet­to ma pittura. E questo sospetto non l’hai mai sfiorato, fino a quella frase con il bel gusto dell’iperbole: “La cultura uno ce l’ha nelle mani”. Il bosco di Rapicciano è sempre stato, fosse pure invisibile dentro la griglia filettata di un cielo stretto ad arco, o prima nell’avvampata matassa srotolata sul piano. Av­vertito sempre il bisogno di un tempo lento, di una sovrappo­sizione, poi di uno sprofondamento. E questo perché Verna ha desiderato estrarre l’essenza dalla variabilità dei fenomeni, e pur partendo da questi giungere a quella. Ora, se appare for­se presuntuoso limitarsi all’idea di questa cosa, resta invece il fatto che egli abbia sempre seguito questo progetto all’interno del corpo stesso della pittura, non deflettendo mai, non stan­candosi mai, e autorizzando il proprio pensiero unicamente come pensiero colorato.

Ma ecco, dunque, il tempo. Che è un accadimento connatu­rato intimamente a questa pittura e ne costituisce la trama più segreta, invisibile e non rappresentabile secondo le re­gole del figurare. Il tempo dentro il bosco, assiepato, sorgen­te, non udibile eppure presente. Il tempo come una cosa del­la vita, una cosa naturale, fluida, dilagante. Non c’è niente che sia forzato, che non abbia questa caratteristica di aller­tata semplicità, che sia uno sguardo continuo, anche serale, anche delle notti dei sogni. Non c’è mai interruzione nell’o­pera di Verna, mai una frattura, ma una linearità ampia. Un vedere ininterrotto, mai stanco., infiammato e malinconico, aderente comunque alla lingua nella quale subito viene espresso. Poiché, per una proprietà miracolosa, il pittore pensa già una visione, e il pensiero è da subito l’atto costitu­tivo del vedere. Non c’è bisogno qui di ulteriori passaggi, non di parole inutili. La grazia della pittura è già tutta contenuta nel desiderio di essere pittore, di non poter comunicare in altro modo che questo.

Così il tempo è nell’opera e l’opera è colore e tempo. Si co­noscono oggi pochi artisti che abbiano impresso questo fare essenziale, vuoto di tutto quanto non sia necessario. Che fanno la pittura come una verità, ma che questa verità non considerano l’attributo di una fede da spendere. La verità è un silenzio, è la costruzione del pensiero, la struttura del la­voro e l’immagine della vita. Si conoscono pochi artisti che tengano, e contengano, tutto nell’opera; che non lascino che si disperda, e la vogliano tutta avvolta attorno a un centro. Certo, questi quadri hanno adesso incrinature spostate ri­spetto a quelli di trent’anni fa. Ma non sono diversi, e se lo sono è soltanto per la libertà del colore di essere se stesso, di non avere bisogno in alcun modo di garantirsi come stru­mento di una linea, di molte linee, di una gabbia formale. Vi­ve tutto ancora attorno allo stesso centro, mistero e misura del tempo intcriore.

Vedere come quello che è fuori sia anche dentro, sempre. Capire come il vedere non sia la costruzione di un’immagine, né la sua prefissata modulazione nello spazio, ma la scoper­ta di un’immagine. Vedere, non guardare. Scoprire, non tro­vare. Come se lo spazio fosse disseminato di segnali, e quel­li, nel loro isolamento o nell’essere collegati, fossero lo scoc­care della scintilla, l’accensione, il principio del cammino.

È solo così che Verna è venuto costruendo negli anni una pit­tura non di manifestazioni ma di respiri, di luci, di trasali­menti. Anche quando, ed era il 1959, si stampava sulle sue tempere, subito bellissime, il rosso sole canicolare che cuo­ceva la terra, determinando, sopra, il grande lago sonoro di un cielo giallo sulfureo. Ecco, lì, subito, era inscritta, e forse ancor di più conficcata, la travolgente storia di un colore
stretto, abbarbicato quasi, alla vita. Un colore che metteva radici, si nutriva, giovane allora, di parentele anche partico­lari per un artista italiano esordiente. Un colore che, sorto al culmine di un decennio tutto informale, se ne sapeva trar fuori con destrezza autentica, lasciando cadere però gli or­pelli di quella stagione formidabile, quel vasto armamentario che poi durò per anni, e in parte tuttora dura, in una forma
di pittura fattasi stanca. Verna seppe invece estrarre i succhi più autentici, quelli più nascosti, facendo subito del silenzio crepitante una delle sue qualità migliori. Fece questo per ab­bandonare quasi subito quel terreno, ponendosi in una posi­zione solitaria, di lavoro che per alcuni anni non desiderò mostrare, raccolto nello studio come a creare un’aura di ul­teriore silenzio.      
In quello studio, che fu a Roma dopo l’iniziale periodo fiorentino, l’informazione continuò a scorrere senza sosta, così i confronti, le conoscenze. Vennero dei quadri che toccavano le ragioni di un tempo che, con forza sempre maggiore, in­tendeva togliere alla pittura la dignità di linguaggio. Mentre nascevano molti gruppi e movimenti interpreti di una moder­nità forse disseccata e poco propensa al dialogo e al confron­to, Verna, pur costeggiando tutte quelle esperienze, avendo­le anzi in qualche misura sperimentate, scelse una volta per sempre la pittura. E non la scelse per un malinteso senso di reazione a un’altra, ma diversa, reazione. Scelse la pittura per una possibilità che gli sembrava, attraverso di essa, di poter cogliere: entrare nel mondo dei fenomeni non per via di sin­tassi soltanto, ma per la via, anche, che autorizzava l’emozio­ne, non la negava a priori.

Analizzando l’aspetto più squisitamente stilistico, Menna, presentando nel 1967 la prima mostra personale dopo il lun­go intervallo espositivo, così si esprimeva: “Nella sua opera è possibile addirittura cogliere il punto (e a volte la consisten­za dei due tempi) in cui il momento geometrico e contem­plativo trapassa in quello più direttamente compromesso con l’esperienza sensibile: le forme geometricamente blocca­te (la prevalenza dei quadrati e dei rettangoli), simmetrica­mente disposte sulla superficie del quadro, cedono a forme più libere, disposte questa volta sulle diagonali, a bande di colore aggressive come segnali”. E Cesare Vivaldi, nel cata­logo della personale dell’anno seguente alla galleria Arco d’Alibert di Roma, sembra insistere su questa linea d’interpretazione critica: “Nonostante talune apparenze, infatti, le sue tele, riempite da grandi strutture colorate che invadono lo spazio in geometrie tanto rigorose quanto irregolari, non si pongono se non problemi puramente pittorici, problemi di ritmo e di coloreluce. Sarebbe del tutto sbagliato, voglio di­re, leggere questi quadri in termini di strutture primarie o di semplice occupazione e scansione di una superficie […] In un certo senso potrei dire che il lavoro di Verna consiste nel proporre una struttura e contemporaneamente nel negar­la; ciò è solo apparentemente paradossale, poiché in altri ter­mini significa che la costruzione geometrica del quadro al­meno oggi è pretestuosa, serve il colore anziché esserne ser­vita “. E chiude scrivendo: “Alcuni dei quadri qui esposti, che non esito a dichiarare francamente splendidi, rivelano al contrario quanto fuoco bruci tra le orditure di meccanismi formali così elaborati e impeccabili, quanta libertà sia sotte­sa a un ordine mentale così assoluto”.

Dunque Verna si pose allora, per coloro che seppero inten­derlo, su un crinale di nessuna perentorietà, abbracciando in­vece la pittura senza presunzione, con fiducia nelle sue possi­bilità di racconto non raccontato. Che se da un lato guardava a specifiche situazioni dell’arte americana, dall’altro teneva vi­va una precisa tradizione del colore assolutamente italiana, che, come è stato detto, aveva i suoi punti cardine in Balla da un lato e Dorazio dall’altro. Così i quadri attorno al 1970, an­no della prima partecipazione alla Biennale, stanno già in una posizione di congiuntura tra libertà e ordine mentale. Lascia­no che la pittura viva, si amplifichi, divenga canto epico e di­steso. Verna sempre più coltiva l’ordine della pittura, per lui imprescindibile, dentro il colore libero. Facendo di questa ap­parentemente impossibile addizione la realtà dell’opera.

Tra 1970 e 1971, sono molti i lavori che spiegano bene que­sto percorso, e tengono viva quella poesia dei confini segna­ti, dello sprofondamento dentro i confini e non oltre. Perché la prospettiva è già tutta nella superficie che la suggerisce, la invoca quasi; nella ruggine infuocata, bellissima, sui bordi di un azzurro che sembra il mare senza esserlo. O il mare con il tramonto appoggiato sopra, impastato. Da qui in avanti, da questi primi anni settanta e fino ai quadri di questi ultimi mesi, grondanti e purissimi, il gioco del riconoscere nei di­pinti la natura potrebbe essere fin troppo facile. Talvolta, al­meno per me, la suggestione è così forte che mi è impossibi­le non cedervi. Perché nell’opera intera di Verna coincidono in maniera straordinaria gli opposti, secondo una regola an­che morale che impone la semplicità della complessità. Ma è da questo momento, da questo 1970, che sento inesauribile una spinta simile.

Proprio al principio di quel decennio che vide, Verna come al­tri veri pittori, intruppati nelle formazioni fin troppo composi­te, fin troppo includenti, della Pittura-Pittura o Nuova pittura. Formazioni che, nel tentativo di recuperare ciò che con il 1968 era stato negato, si immettevano dentro nuovi dogmi, dentro altre libertà negate, nella mancata adesione agli strumenti del cuore prima ancora che della forma. In molti ci fu cattiva pittura, e questa è la sola distinzione possibile, il solo discrimine che possa funzionare. Non l’ideologia, non i programmi a ta­volino, non i quasi incomprensibili proclami critici. Verna fu in quei gruppi, e anzi vi partecipò tra i più attivi. Ma con un senso del silenzio, con un guardare ancor più teso e sopito, tale da staccarlo prepotentemente da quasi tutti. Egli si por­tava dentro una diversa dimensione del tempo, uno spazio
inusitatamente più ampio, una sua copertura lenta, avvolgen­te. Il colore cominciava a essere del tutto quanto è poi venu­to mostrando nei quadri specialmente degli anni ottanta e no­vanta. Erano già, in quelle opere, trafitture continue, bran­delli di luci, luci rapprese e sfrangiate, addensamenti del­l’ombra e grumi della notte. Sempre con un gesto controllato, che non ha mai abbracciato la pennellata violenta e invece ha
privilegiato il controllo dell’emozione, la sua distesa misura. Anche in un piccolo gruppo di quadri, pur con qualche di­stanza al loro interno, che alla metà degli anni settanta segna ormai l’ultima traccia prima del grande tempo di questa pit­tura.

Dove il nero coprente, che non è mai una forzatura, non ha niente di naturalistico, ed è anzi l’opposto della descrizio­ne, dell’abbandono, del lirismo. E invece l’esatta notte, scan­dita, tersa come una notte senza luna. Ma fatta solo con il co­lore, senza sapere che la natura esiste. La natura, adesso, è lo schianto dentro la coscienza.
Tutto quello che dopo il 1976 è venuto, è uno dei canti più belli, insistiti e autentici che la pittura italiana di questi ulti­mi due decenni possa mostrare. Canto ancor più unitario, sempre più stretto attorno a un bisogno, a una necessità. Posatisi entro i confini di quel bosco davanti casa e da esso sor­genti. Certo, si ricordano molti quadri bellissimi, tante pre­dilezioni. Ma soprattutto la vastità, e la densità felice, di
un’esperienza dettata dall’intelligenza del cuore, dall’instan­cabile desiderio di stare dentro la pittura come per una sco­perta senza limiti. Perché se nel quadro ci sono confini, nel­la pittura è l’illimite, l’assenza di orizzonti, il luogo profondo
di un non luogo sorto comunque da un luogo. Quel bosco non è lì invano. È una sovrapposizione di memorie, è muffa, rug­gine, alba, notte, pioggia, nebbia, neve quando cade la neve.

È il rosso, l’azzurro, il giallo, il verde, il bianco e il nero. E tutto questo e tutto quanto nemmeno il pensiero riesce a im­maginare. Credo, con Claudio Verna, che la pittura ogni co­sa possa contenere, così come la vita.

Chiudo prima di eccedere, e so che davanti a queste opere non sarebbe giustificato, e neppure giustificabile. Ma ho pro­vato poche volte emozioni come davanti a tanti di questi la­vori recenti. Nei quali non è forse niente, o forse chissà, di quello che vedo. Ma vedere non può essere lo stesso vedere, e perfino la cecità può essere un vedere. Ecco, il mio vedere cieco i colori di Verna, il mio vedere quello che neppure il si­lenzio dice. Un silenzio che è oltre il silenzio, dove solo il co­lore giunge. Una carovana, un deserto, il giallo acceso. L’in­gresso dentro il tramonto che sprofonda. Non c’è niente che non sia in questa pittura; il miracolo della totale rappresenta-bilità, dell’essere e del nulla, del destino. Tutto scritto con la pelle del colore. Esaltata, franta, rifratta, splendente. Tutta una storia, tutta la storia, tutta la vita solo con la pittura.

Dunque, il prodigio dell’essenza.