1998 - Gioia MoriIl Cromonauta, “Art e Dossier” n. 135, Firenze, giugno 1998; e in catalogo personale Accademia dei Concordi, Rovigo, ottobre 1998

Nei dintorni di Spoleto, a Rapicciano, un piccolo borgo umbro dominato da una torre trecentesca, vive Claudio Verna. L’artista abruzzese di nascita, vis­suto a Firenze e a Roma, ha scel­to da alcuni anni di lavorare lì, in una grande casa secentesca, dove lo studio, all’ultimo piano, domina un paesaggio dolce e mosso dal vento; i cambiamenti di colore sono repentini, folate si posano come pennellate sull’er­ba e sul cielo, sulle colline e sui mattoni antichi stendendo mille sfumature di verdi, azzurri e ocra. È un luogo in cui la natura crea in continuazione tavolozze inedite, e dove il colore domina e costruisce: una “pittura della natura” un continuo sovrapporsi di toni e mezzitoni scandisce l’i­ninterrotta metamorfosi di que­sto luogo, il posto ideale per un artista che della “natura della pittura” – intesa come dominio del colore – ha fatto il centro della propria ricerca.

Artista vitale e ostinato, Verna non si è mai sottratto al confron­to con le dinamiche dell’arte e della critica contemporanee, anche quando la pittura era ritenuta «antiquariato», e la sua ricerca è stata scandita lungo il corso di quarant’anni da dibattiti e colloqui con artisti e critici, da interventi e scritti, contributi in cui spicca lucida la tensione a una pittura che si sgancia dalla rappresentazione per giungere a una pura stesura cromatica, al trionfo del colore; colore che, nel corso degli anni, è stato lasciato da Verna libero di esplodere, oppure ingabbiato nella proget­tualità e piegato a costruire gri­glie geometriche, per tornare poi, nel corso degli ultimi vent’anni, a dominare, seppure domato, sulle tele e sulle carte.

La pittura di Verna si inserisce in un dibattito nato almeno un secolo fa; un dibattito che ha lasciato capolavori fatti di fila­menti di colore, di macchie che costruiscono, dì aloni che voglio­no evocare aure ed emozioni; una storia che ha inizio con quei covoni di Monet che alla fine del secolo scorso tanto sconvolsero un giovane moscovita, Vasilj Kandinski, e che nel nostro seco­lo ha originato l’esplosione dell’action painting e la riflessione che ha portato alla purezza dei monocromi, magri e opachi, di Rothko.

Allontanarsi da qualsiasi riferimento reale, sopprimere il racconto, lasciare il colore libero di vivere la propria autonoma esistenza e la capacità di suggerire emozio­ni e provocare nuove sensazioni; è la pittura di solo colore, dove il quadro diventa evocativo (una “madeleine” proustiana che som­muove ricordi e sensazioni per­dute), e puro suono scaturito da accordi o disarmonie casuali o ricercate: una sinestesia dell’ani­ma, che risveglia realtà più profonde di quelle immediata­mente riconoscibili.

Una storia colorata

Questa storia del colore in libertà è raccontata da Verna con un’efficace sintesi, dove un arco­baleno unisce il lavoro di Monet, di cui sottolinea «l’accanimento sulla specificità dei procedimenti percettivi», Matisse che «con le carte dipinte giunse a decantare completamente la forma “dise­gnando con le forbici, tagliando a vivo nel colore”, Van Gogh «che disegnava con il colore», Cézanne «che costruiva con il colore», gli espressionisti tedeschi «che forzavano il colore (sia pure con declinazioni letterarie) fino a fargli stravolgere lo schema spa­ziale preordinato», gli artisti dell’action painting «che al colore hanno recuperato parte almeno della sua autonomia e della sua virtualità», Malevic «che propo­neva un nuovo alfabeto del colore, con leggi sue proprie, perché diventasse una unità autonoma, nell’ambito di un sistema in cui la teoria fosse complementare all’esperienza», fino a Nicholas de Staёl, a cui Verna dedica nel 1987 un quadro omaggio, II muro degli uccelli, nato da una frase dell’artista francese («La pittura è un muro, ma ci volano dentro tutti gli uccelli del mondo»). Sulla tela si raccolgono canti fatti di colori, una lirica della geometria, quando la geo­metria diviene poesia.

Il suono dei colori

E, nel lavoro di Verna, il colore ha conosciuto ogni declinazione possibile: enfatico, prorompente, steso con pennellate a virgola, nei primi dipinti informali dove dominano la gestualità e la spontaneità, un’emotività non controllata, baldanzosa e viva­ce; quella stessa che viene poi imbrigliata e domata in un momento di pura progettualità, in cui il colore diviene segno controllato: rimane della viva­cità iniziale un’eco nei bordi sfrangiati, un debordamento di toni lungo i segmenti rettilinei; e poi, dalla fine degli anni Settanta, il colore – che ora conosce il filtro del controllo – ritorna a tessere sulla tela delle felici esplosioni di emozioni. Permane l’energia dell’esecuzio­ne, la sicurezza del gesto, mai violento, ma lento: ogni dipinto di Verna ha un lungo processo esecutivo e strati di colore stesi e raschiati depositano le loro trac­ce sulla tela o sulla carta: sono tessuti fatti di mille fili di oli e pastelli, intrecci che saturano i supporti. Eppure, un equilibrio sottile pervade ogni lavoro, dove il rigore e l’emozione si bilanciano a vicenda: il rigore giunge opportuno a frenare l’e­mozione che deborda nell’Ultima alba oscura o in Oltre la soglia; oppure viene spezzato dal bordo sfrangiato nel dipinto Lo scuro, dove il colore corregge e muta in ovale la troppo rigida perfe­zione del cerchio blu notte. L’opera si ferma quando viene a crearsi un’armonia fatta di equi­libri cromatici – come in Figure accese – , di sfrangiamene sottili, di bordi filamentosi, quando la stesura larga e pastosa del l’ultimo strato trae da sparse note (tutte ormai sommerse in un succedersi di strati) una melodia continua, come in Corvi in pattuglia o nella satura Topografia minima dove una solarità accecante viene raccolta e moderata dal nucleo centrale fatto di una sinfonia di bianchi e grigi. E solo allora, alla line, quando le mille stesure depositano ognuna un cenno colorato del loro pas­saggio, la tela o la carta lievita­no della leggerezza dei fragili segni di Licini, della gioiosità di Morisse, della forza di Staёl; e solo allora, alla fine – così rac­conta Verna – ricompare uno stato d’animo (un “interrogativo arrogante”, un “processo dubbio­so”, un “elogio dell’ombra”), o l’atmosfera di una stagione (“il clamore dell’inverno”, “l’agonia del verde”), il ricordo di una frase, di una storia, di una visio­ ne (la tenda di Gengis Khan”, gli “edifici fragili”, “il lago dei suoni”, “la notte di San Silvestro”, “l’agonia della sera”: tutti titoli di opere di Verna). Suono, colore, ricordo si fondono in una solare e gioiosa sinestesia dell’anima.