1995 - Fabrizio D'AmicoClaudio Verna, trepida asprezza, catalogo personale Galleria Morone 6, Milano, febbraio 1995

Come non di rado gli accade da quando è pittore – cioè da sempre -, e da quando fa mostre, e vede pubblicati cataloghi e monografie sul proprio lavoro, anche questa volta Claudio Verna, su queste stesse pagine, scrive di pittura. Credo sia capitato, oggi, quel che gli è sempre avvenuto: di prender la parola sollecitato da chi assieme a lui curava il catalogo o il libro; e di decidersi a prenderla da un canto spinto da un bisogno reale e profondo, e per ciò stesso difficilmente comprimibile; dall’altro a malincuore: per un pudore fondo e vero che egli conserva nel dibattere di pittura con strumenti altri che non siano quelli della pittura medesima. Anche stavolta, Verna non parla della sua pittura: apparentemente. Ma, come è ovvio, quel che dice sgorga direttamente dalla sua esperienza, e svela prima di tutto una parte del suo animo, dei suoi bisogni e delle tensioni ideative che muovono il suo lavoro. Ed è per questo che quel che dice, oggi come sempre, è – ben più che un generico contributo al dibattito critico – un viatico come nessun altro pregnante alla comprensione dei suo lavoro.

Fra le molte cose, per me tutte condivisibili, che Verna scrive oggi sulla pittura e sul colore, sulle ragioni profonde e forse davvero “irrinunciabili” che continuano a vincolarla al suo statuto, una fra tutte scelgo di ricordare: ed è, più che un assunto particolare, un tono che vibra identico e forte lungo tutti i paragrafi in cui è articolato lo scritto, e lo sottende in una sorta di dura malinconia o, per seguitare l’ossimoro, di trepida asprezza.

Ed è proprio in quel timbro del discorso che mi pare si debba soprattutto riconoscere il contributo critico che Verna, oggi come da tempo, va allungando ‘accanto’ alla sua opera, e insieme il tratto che unisce ora più autenticamente questo dire teorico al suo lavoro. Almeno negli ultimi dieci anni, da quando un segnare acceso e libero ha preso ad invadere il campo unito e saldo del colore, non credo che la pittura di Verna abbia registrato sensibili variazioni d’assetto.

Certo, il suo crescere pensoso attorno a valori eminentemente linguistici ne ha -come sempre, anche in quest’ultimo decennio; e in particolare nelle opere più recenti, dal ’91 in avanti – costellato il cammino di quelle varianti interne, di quelle modulazioni di tono che sono implicite in un lavoro che si da, ansimante, fra memoria e destino, fra progetto e abbandono, senza che l’un termine abbia mai a prevaricare sull’altro. Ma la sua facies complessiva appare saldamente unita, congruente, in sé conchiusa: come in fondo è naturale avvenga ad una maturità piena e perfettamente consapevole. Quanto invece mi appare mutato, o quanto meno assai più marcatamente asserito oggi che non in passato, è la percezione stessa che questa pittura offre di sé. Ed è appunto questo che mi sembra unire – meglio, far profondamente congeneri – la riflessione teorica e la prassi di Verna. Che da un canto sono, entrambe, testardamente tetragone nella difesa di quei valori di pura pittura che da sempre la sostanziano; dall’altro, pur nulla concedendo ad una delocazione di quei valori, assumono sopra di sé scopertamente – la damnatio che tanto diffusamente se ne divulga.

E’ allora da questa contraddizione – visibile, e lucidamente accettata; che non inerisce dunque all’opera in sé, ma proprio alla sua più complessa percezione – che scende il talento ulteriore che la pittura di Verna ora possiede: e che è un talento di natura drammatica.

“Le opere – scrive ad un punto – di un pittore non vengono quindi capite né viste per quello che sono (anzi, non vengono letteralmente viste), perché si nega il presupposto della loro esistenza: si nega insomma la pittura come teoria, come possibile linguaggio”. E ancora: “il fare-arte non avrebbe la dignità del pensare-arte: si opera così una divaricazione tra momenti fondamentali e contigui dell’essere artista, una discrepanza drammatica nella sua insensatezza. Al contrario, la pittura attiva la sincronia di questi momenti, vive della loro capacità di sintesi”. Il che è incontrovertibile.

Ma quanto ha soprattutto peso in queste parole non è tanto la parte loro per così dire asseverativa, di algida elaborazione concettuale; quanto lo spazio – la voragine, vorrei dire – che esse aprono forse al dubbio, e certo alla consapevolezza della propria individualità oggi problematica: della propria, per usare un battesimo che ho amato, “sovrana inattualità”.

Che poi quella “inattualità” sia tesoro raro, e gemma da custodire gelosamente, forse davvero questo può oggi meglio asserirlo e crederlo e ricavarne conforto chi abbia rispetto al lavoro un punto di distanza maggiore che non chi quel lavoro agisce in prima persona. A costui, al pittore, la medesima consapevolezza critica apre invece di necessità un pertugio maggiore all’ansia, e forse alla melanconia: che è il sentimento, appunto, che traspare in quelle parole che Verna oggi mette, quasi con pudore, fra due parentesi: “anzi, non vengono letteralmente viste”. Molte cose si potrebbero dire, allora, sulla pittura recente di Verna, e sulle sue sapienti variazioni sul tema del colore; di quel colore che da quattro decenni fa di questa pittura una voce alta nel nostro maggiore astrattismo. Partendo, ad esempio, da quel Di ritorno da Battagliotti – di ritorno cioè da una visita all’amico Piero Ruggeri -, intriso di profumi di natura, all’Agonia della sera, che sembra rammemorare gli azzurri di un Mafai severo d’anni Cinquanta; del più casto Elogio della luce, dove i gialli diversamente combusti dagli aranci dettano un’epifania quasi assoluta di luce, al coinvolto Agonia del verde; fino a quei quadri bellissimi, taluni proprio degli ultimi mesi, dove la bipartizione della superficie determina un andare ansioso dello sguardo da un campo all’altro della pagina pittorica, e l’incontro con un pensiero pittorico speculare e infinitamente interattivo.

Questo ed altro, si dovrebbe dire dei lavoro più recente di Verna. Oggi però preferisco fermarmi a quella prima e complessiva suggestione che più d’ogni altra restituiscono forte, l’una dopo l’altra e tutte assieme, queste pitture (e ‘accanto’ ad esse, le nuove parole di Verna): suggestione dunque, soprattutto, d’un modo di resistenza alla banalità delle negazioni correnti, alla fuga verso tenitori eteronomi, alla spettacolarità mondana di tanta ginnastica artistica post-moderna. Un modo di resistere talora aspramente asserito, talora venato di malinconia; fors’anche drammatico, a giorni; sempre, comunque, armato di quel pensiero antico che ha stabilito essere, la pittura, non altro che accordo di linee e colori su una superficie.