1993 - Giovanni Maria AccameClaudio Verna, Costruttività del colore, catalogo personale Galleria Fumagalli, Bergamo; Galleria Soave, Alessandria, 1993

Per Verna la pittura coincide e ha sempre coinciso con il colore. Fatto di luminosità scandite e regolate, o costituito da un’inquieta organizzazione segnica, il colore è ciò che abita e muove la superficie. Centro di riflessione e di azione, rappresenta quanto di inesauribile lega l’artista con la propria opera.

E’ lo stesso Verna a scrivere: “Io mi dico pittore perché ho sempre pensato di potermi esprimere solo col colore. Ma il colore non è un attributo della pittura. Come dice Dora Vallier, ‘lapittura occupa lo spazio in quanto colore’; ne deduce che è ‘nella struttura del colore e non della forma che si devono cercare i significati della pittura’. Siamo nel cuore del problema. Io non ho mai progettato i miei quadri in bianco e nero (anzi non disegno neanche in bianco e nero), ma ogni mia idea nasce a colori: o il colore ha in sé la struttura che lo sorregge, e sorregge il quadro, o il quadro non nasce. Naturalmente coltivo questa mia disposizione, ne ho fatto la ragione e lo scopo del mio lavoro. Fuori da ogni sentimentalismo, il colore è emozione, ma emozione attiva, per molti aspetti consapevole. Il colore perde così ogni indeterminatezza letteraria e diventa pigmento fisico, materia, corpo della pittura. Non è aggettivo ma sostanza. E’ la pittura’. (1)

Verna, che ha consuetudine allo scrivere e al riflettere sui problemi dell’arte, ci dice come “Il colore ha in sé la struttura che lo sorregge “. E’ questa una affermazione che mi interessa particolarmente per due ragioni: da un lato indica l’importanza dell’aspetto più sensibile, di pura percezione che coinvolge sempre la pittura, dall’altro afferma un concetto che lo ha progressivamente portato a sviluppare una costruttività del colore da lui particolarmente sentita.

Per quanto riguarda il primo aspetto, il primato riconosciuto da Verna al colore, conferma quanto ho sempre sostenuto nei confronti della pittura a carattere riflessivo, anche nelle declinazioni di tipo più analitico.

E una determinazione analitica era certo presente nella pittura di Verna del periodo 1970-1976. Questa però non ha mai tolto al colore e alla componente percettiva un ruolo di rilievo. Anzi, le modalità dell’analisi, più facilmente identificabili negli interventi di tipo strutturale, sono in realtà strettamente legate anche al colore. Dalla tonalità della stesura, il colore, nella sua sostanziale continuità di spazio percettivo, ha sempre costituito il centro della riflessione. Non è infatti possibile, sebbene sia stato teorizzato, svolgere un’indagine analiticamente approfondita sulla pittura prendendo in considerazione le sole pratiche di applicazione. Il colore, anche nell’impiego monocromatico, come è stato molto spesso per Verna, sino alla esclusiva utilizzazione del bianco, è il caso di Robert Ryman, rimane il luogo fisico e concettuale in cui si formano le idee e le concrete esperienze della pittura.

Il secondo aspetto dell’osservazione di Verna si riferisce alla struttura interna del colore, una struttura che “sorregge” il colore stesso e con esso l’intero quadro. E’ una questione fondamentale che riguarda in modo specifico gran parte dell’arte moderna e contemporanea. Seurat e l’ultimo Monet sono i pilastri di una concezione del colore che qui ci interessa particolarmente. Le differenti concezioni e modalità di approccio, si trovano a convergere nel delineare quella più ampia e articolata esperienza di una pittura riflessiva che, nell’analisi o nell’ostinata concentrazione su una condizione emotiva, afferma i propri esclusivi valori. Il sistema di Seurat, nonostante l’importanza che questo artista ha sempre assegnato anche all’ordine compositivo, afferma la capacità del colore di stabilire proprie regole e, come ha scritto Menna: “di condurre simultaneamente il doppio procedimento dei fare l’arte e del fare un discorso sull’arte”. (2)

Dalla volontà di Seurat di dominare con la ragione ogni aspetto intuitivo, dai suoi interessi scientifici e metodologici, era assai lontano Monet. Altrettanto determinato fu però Monet, a partire dagli anni novanta, con le serie di pitture sul medesimo soggetto osservato in differenti stagioni e momenti della giornata e quindi con diversi effetti di luce. L’assenza di teorizzazioni non impedisce a Monet di mettere in atto una organizzazione del lavoro, vera e propria investigazione percettiva, che si traduce in un ordinamento dell’esperienza.

Le impressioni che si fanno pittura, di cui egli è stato il primo e maggior maestro, ripetendosi nel soggetto, spostano l’attenzione esclusivamente e senza possibili equivoci sulla pittura. L’impressione non rimane più un problema circoscritto a quell’opera in quel momento, ma diviene un’esperienza articolata su più tempi. La serialità innesca un inevitabile confronto-riscontro e dunque una possibilità più netta di procedere in una riflessione che diviene condizione determinante di innovazione linguistica.

Innovazione che si delinea in tutta la sua straordinaria forza con il lavoro degli ultimi vent’anni.

Quelle ninfee nel cui bacino si annuncia un modo nuovo di intendere e fare pittura, con il corredo di un inesauribile inventario di segni, macchie, stesure, ritmi, andamenti, continuità ed intermittenze, intensità ed estenuazioni cromatiche. Sopra tutto si afferma la chiara indicazione di un superamento della forma in quanto disegno compiuto, ma anche concettualmente pensata. Viene attuata la possibilità di presenze non formali, ma con proprie logiche di aggregazione. Vi è una costruttività senza geometria e senza progetto. Il colore trova delle proprie strutture e la pittura, non formalizzata, si lega ad un concetto di spazio come totalità.

Una totalità la cui effettiva esplorazione dei potenziali sviluppi è iniziata nella seconda metà degli anni quaranta, toccando la sua punta massima nel decennio successivo. Sono ancora molti però, ancora oggi, i riferimenti possibili e fertili con i suggerimenti di quella tarda stagione di Monet.

Nella pittura di Verna degli ultimi quindici anni, mi sembra non sia estranea una riflessione su quella grande esperienza. In particolare da quando ha ancor più accentuato quei caratteri di libero esercizio, affrontati dalla fine degli anni settanta, nella dirczione di uno scavo intèrno che trae pittura dalla pittura. Voglio dire come in Verna, la continuità creativa, la sua vitalità, non derivano da cambiamenti di campo, da salti incrociati su differenti indirizzi, ma sgorgano da una tensione autentica. Facendo perno direttamente sulle risorse del colore, la pittura procede verticalmente mettendo nuove radici sulle proprie radici.

“Se la pittura, come penso, è un ininterrotto esercizio di libertà, allora anche il possibile codice che inevìtabilmnte cerco col lavoro, va visto come un sistema aperto. Si è nella tradizione quando la si rimette continuamente in discussione, ma questo vale anche all’interno della propria storia. E’ tutta qui la straordinaria ricchezza della pittura, nel dialogo continuo all’interno delle sue infinite possibilità. Ci sono molti modi di vivere questa libertà: con l’ossessione di Morandi o la ripetizione differente di Castellani, il nomadismo di Picasso o la felicità germinale di Turcato. Nel mio caso, se non è presuntuoso aggiungermi all’elenco, affronto ogni opera senza il complesso della pagina bianca, ma con la piacevole sensazione di avventurarmi in qualcosa che mi promette piacere. Forse per questo non cerco di approfittarne, ma elaboro il quadro con lentezza, pronto a seguire gli inviti e le suggestioni di quanto si va organizzando sotto i miei occhi. Il quadro così non nasce con il proposito dì colpire o sorprendere lo spettatore, ma al contrario di farsi avvicinare lentamente ed agire con il massimo dell’efficacia man mano che aumenta il tempo della sua lettura’. Ritrovo queste mie parole in un catalogo del ’79, ma non saprei definire meglio il mio atteggiamento di fronte alla tela. Di diverso, forse, c’è una sottile inquietudine che oggi mi accompagna segretamente, una insofferenza verso tutto quello che non mi convince nei miei quadri: per cui riesco a dipingere sempre meno opere e ancora più lentamente. Ogni quadro nasce come se fosse il primo (o l’ultimo) e di tutto mi preoccupo meno che della coerenza formale: questa, se c’è, risulta solo alla fine del processo, quasi a mia insaputa, grazie a una storia che mi sostiene e una manualità inevitabilmente personale. Ma lo sforzo è quello di pormi ogni volta in un punto di osservazione diver­so, di aggirare la realtà per coglierne aspetti inesplorati.

 Non so mai dove mi porta questo procedimento, ma solo così posso sperare di tenermi lontano dalla maniera. Insomma il quadro è anche il terreno dell’avventura, dove riverso i miei impulsi: ma è soprattutto lo spazio dove il progetto si alimenta della sperimentazione e le idee fanno i conti con la prassi quotidiana. Mi fanno da guida il quadro precedente, l’esperienza, la curiosità, i quadri degli artisti che amo: e la fiducia nella capacità del colore di farsi protagonista, di sfruttare le sue potenzialità luminose quando raggiunge il massimo della saturazione. Al colore mi abbandono, ma è poi il colore che detta le sue leggi.Quando il quadro comincia a “parlare^ è la sua logica che devo seguire ed è una logica inevitabile, necessaria. (Solo così la pittura può diventare coscienza e conoscenza) “. (3)

II ‘sistema aperto”, di cui parla Verna, è molto meno ovvio di quanto si possa immaginare pensando alla libertà di un artista di fronte alla propria opera. Verna vuole indicarci il difficile equilibrio tra un proprio modo di intendere e dunque di realizzare la pittura, e il senso di completa e autonoma invenzione che vuole riservarsi ogni volta che si pone di fronte alla tela. Il singolo atto deve essere libero dalla personale “tradizione” che lo precede ma, al tempo stesso, farne parte. Su questo sottile confine, per gli artisti, si gioca la differenza tra una replica passiva di se stessi, della propria maniera, e la vivacità di una variante o, ancor più, l’ulteriore contributo di soluzioni innovative.

Strettamente legata a questo problema è l’altra affermazione di Verna: “riesco a dipingere sempre meno opere e ancora più lentamente \ La quantità eccessiva conduce automaticamente e inevitabilmente, per tutti, alla replica. Ecco perché Verna restringe la propria produzione, non potrebbe conciliare quell’esercizio di libertà alla richiesta di una quantificazione massiccia del proprio lavoro.

La sottile inquietudine che oggi mi accompagna ” è proprio questa. La divaricazione tra l’esigenza propria, intima, di essere sempre più rigorosi, di pretendere ogni volta di più da se stessi e la pressione di un sistema dell’arte, principalmente fondato su regole di mercato, che spinge anche il singolo artista a delle produzioni secondo logiche industriali.

La scelta di Verna, di fedeltà a se stesso, al rispetto dei propri mezzi, è quindi una rinuncia a vantaggi sia economici che di diffusione, ma è anche l’affermazione di un piacere della pittura che dall’artista passa a chi guarda le sue opere. Raramente si coglie nelle tele di Verna la stanchezza, possono evidentemente esserci riuscite diverse, diffe­renti livelli di qualità. Troviamo sempre però quel piacere del rischio che fa del dipingere una particolarissima avventura. Quel tentativo, anche minimo, di ulteriore conquista rispetto all’opera precedente.

Nel lavoro più recente il colore e le sue forme sono testimoni di questa libertà vigile, dell’inquietudine di un’esperienza che sa aprirsi all’emozione. Tele come ‘Elogio dell’ombra”, “Agonia del verde” e “In viaggio”, tutte dei 1991, sottolineano con particolare forza il concetto di costruttività del colore. Una costruttività che si rafforza nel rapporto interno e appassionato tra l’artista e la sua opera. La pittura e il pensiero che la comprende si confrontano, sono coinvolti il sapere e il sentire. Questo dialogo di volta in volta armonico o contrastato sembra emergere anche dagli andamenti pittorici, guidati non da un programma, ma dall’ansia di scoprire la mossa successiva.

Ho già scritto come vi sia ‘una pittura che ci porta lontano, fuori, all’esterno di se stessa, che procede quasi dimenticandosi o che comunque noi dimentichiamo. C’è invece una pittura che ci afferra, ci costringe a seguirla, una pittura che vuole essere presente e con la sua presenza costituisce motivo di continua attesa. Questa è la pittura di Verna che ci attende e ci costringe ad attendere”. (4)

L’attesa a volte è per opere che scelgono una comunicazione sussurrata, fatta di una particolare poesia. “Agonia della sera”, “Tutto da perdere”, “Senza difese”, dipinte nel 1992, ci appaiono come rare visioni, dove l’artista ha capovolto il normale procedere per “fare dell’opera un cammino verso l’ispirazione”. (5)                     

La centralità del colore, sentita come l’identità stessa della pittura, è la condizione che permette a Verna di far coincidere le motivazioni, gli impulsi, le riflessioni che si sovrappongono e premono nel momento del dipingere. Una centralità calamitante, ma al tempo stesso fonte inesauribile e incessante di espansione delle proprie potenzialità. Un’identità assoluta, che travalica il fare e coinvolge l’essere stesso dell’artista. Un’emozione intensa, ma senza smarrimenti, che fa corrispondere al respiro della pittura, il dilatarsi del pensiero.


(1) Da una lettera di Verna scrittami nel marzo dei 1993.
(2) F. Menna, ‘La linea analitica dell’arte moderna”, Einaudi, Torino, 1975.
(3) Lettera di Verna, op. cit.
(4) G.M. Accame, “Claudio Verna, natura della pittura”, Lubrina, Bergamo, 1991.
(5) M. Blanchot, “Lo spazio letterario”, Einaudi, Torino, 1967.