1989 – Patrizia FerriClaudio Verna. La pittura come emozione, ARTINUMBRIA, n.21, Perugia, autunno 1989

“In tutti questi anni, mi sono spesso fatto questa domanda: la pittura, nonostante il peso enorme della tradizione e dei condi­zionamenti storici, ha sempre la capacità di proporsi come disci­plina per fare arte, e possibilmente grande arte? Ho sempre ri­sposto di sì, ad una condizione: che della pittura si recuperino prima di tutto le potenzialità con un’indagine accorta, profonda, critica, insomma dei suoi elementi costitutivi, della sua struttura, della sua storta. lo mi sono impegnato in questa analisi per giun­gere finalmente ad una maggiore libertà, alla mia libertà di artista”.

Uno dei passi più citati, assertivi ed efficaci, questo, degli scritti di Claudio Verna che, dal suo affacciarsi nelle vicende dell’arte italiana dalla fine degli anni ’50, ne hanno accompagnato l’estro con la lucidità tagliente della riflessione critica intorno al proprio lavoro (“la lama che scuoia la follia – ha scritto Dorazio – e la rivolge in verità”), con la capacità, rarissima, di valicare l’im­prescindibile narcisismo, per guardarsi, chiarirsi, dubitare, con­frontarsi, senza togliere nulla a quell’alone di affascinante insondabilità, a quella zona opaca di mistero che circonda l’artista au­tentico, per vocazione. La tendenza innata verso una mobilità comportamentale è agita sul doppio piano di artista e teorico, dove la coesistenza dei ruoli, nel complesso gioco di rimandi, trova equilibrio in quel “punto d’incontro di tutte le contraddizioni, sin­tesi imprevista e imprevedibile di teoria e pratica”, perché un pit­tore, ha detto Verna qualche anno fa senza polemica, con la sua solita, misurata ironia, non dipinge solo con le mani e del resto non è certamente la sola intelligenza teorica e la volontà ad es­sere, a farlo diventare un artista, sottolineando il valore che ha sempre attribuito a questo termine.

In un gioco di libere associazioni, ad artista faremo seguire cer­tamente libertà: è stato scritto che per Verna la libertà è una con­quista lentissima, io aggiungerei tenace, di un proprio territorio mentale, regolato dalle regole ferree del fare pittura. Il lavoro in-teriore, la riflessione razionale sul linguaggio, è necessaria pre­messa, completata da un secondo termine che potrebbe essere entusiasmo, emozione, ansia di assurdo, inquietudine dell’ignoto.

Verna, anche in anni in cui imperavano teorie integraliste di dog­matico razionalismo sotto varie etichette e denominazioni, pur aderendo di fatto a un procedimento marcatamente mentale, si è dichiarato sempre insofferente a teorie ritenute troppo strette, riduttive e quindi spersonalizzanti. Non ha mai messo sbarre, neanche dorate, di razionalità al volo libero e appassionato del pensiero: volo che abita la superficie in una graduale, ora per­fettamente raggiunta, libertà, in quel dibattersi ansioso dei se­gni a cui è affidato il crescendo emotivo dell’immagine, nelle pen­nellate rivelatrici di quell’inquietudine così profonda, di quella ten­sione così sottile e vibrante, di quell’intensità emozionata eppu­re così controllata.

Esiti di un’espressività per la quale appare così adeguata l’affer­mazione di Nicolas De Staёl, riconoscendosi Verna nel tentativo di risolvere la coesistenza di due diverse realtà: “Lo spazio della pittura è un muro, ma tutti gli uccelli del mondo vi volano dentro”. Dunque la superficie come lo spazio mentale vivificato di tessi­ture di emozioni, irrigato dai fluidi caldi di un’affettività intensa, piena, declinata con pudore, quasi reticente, che trasuda felici­tà. Lo spazio pittorico in Verna è come un organismo con una sua propria vita, una sua temperatura alta ma mai febbricitante, nascente dal contatto fisico di un rapporto appassionato vissuto in radicale solitudine, tra il pittore e la tela, nell’esperienza quo­tidiana col lavoro e la riflessione. Una vita che è quella del colo­re elaborato in ampie stesure che sedimentano crescite stratifi­cate e gestazioni lente, e del segno che vi si innesta con una gestualità articolata e controllatissima, misurata, in un fare orientato alla costruzione dell’opera, alla strutturazione di uno spazio pittorico con i propri elementi costruttivi; l’azione si esplica attra­verso la gradualità di un percorso di accumulazione e, quindi, in ultima istanza, di selezione.

L’ambiguità sostanziale, la trasgressione sottile che rende dia­lettica la memoria analitica con l’elemento emotivo, è l’esperienza tormentata della tensione continua, caparbia all’equilibrio: complessità dialettica che procede per urti, scarti, dissonanze mai esplicitate bensì compresse all’interno dell’opera la cui struttura è rivelatrice del suo stesso farsi, non dato finale di un’idea apriori­stica.

La dicotomia tra ragione analitica ed emozione sono stati sem­pre per Verna due piani contrapposti in reciproca messa in di­scussione: già dalle prime esperienze, i termini della sua ricer­ca, geometria e colore, legge strutturale e sollecitazione senso­riale si contaminavano sottilmente, rivendicando ruoli primari. Questo aspetto dominante di coesistenza dei due momenti si an­drà sempre più definendo, accanto allo studio sistematico sul co­lore per la definizione di un nuovo spazio, e da quel momento Verna, incentrerà la propria cifra linguistica proprio su questa op­posizione/equilibrio, accettando la contraddizione con un atteg­giamento mentale cosciente della problematicità del rapporto tra ragioni soggettive e istituzionali del linguaggio, nel recupero delle potenzialità della pittura, indagata nella sua struttura e nella sua storia, da Matisse a Gorky, da Twombly a Braque e De Staёl, artisti attraverso i quali emergono le grandi costanti della pittura occidentale, come la luce e il colore.

Non era certo un momento facile per la pittura il periodo che da metà anni ’60 abbracciava tutto il decennio seguente; c’era osti­lità da parte di certa critica e del mercato, ma per il giovane arti­sta abruzzese le difficoltà sono state sempre un incentivo, per una indole come la sua, tenace e perseverante. Alcuni incontri di critici, Menna e Vivaldi, per esempio, e di alcuni artisti, primo fra tutti Dorazio, sono stati determinanti per il chiarimento di al­cuni punti della sua ricerca. Annotando quest’ultimo come l’av­venimento più importante di quegli anni, Verna scriveva: “Nel suo studio ho capito come l’audacia e l’entusiasmo per il nuovo si possono innestare sulla grande tradizione”. Rispetto, poi, a fenomeni come l’arte povera e concettuale, Ver­na non si è mai dichiarato contrario, ma ne avvertiva un limite nella subordinazione ritenuta un po’ meccanica del fare all’idea, il cui risultato era un’opera come didascalia di quest’ultima. Egli ha, al contrario, sempre creduto fortemente alla sintesi tra i due momenti, nella possibilità di elaborazione del concetto nel mo­mento stesso del fare, nella traduzione unica e imprevedibile del­l’opera. Un’accelerazione invadeva la superficie dalla metà de­gli anni 70, attraversandola non più con una stesura cromatica continua come era in precedenza, ma con linee andamentali trac­ciate dal segno e rinforzate da flussi cromatici. Seguirà, quindi, un’esplorazione più libera della pittura attraverso un procedimento sempre più mosso attraverso il quale la superficie subirà un ispessimento materico nel quale abita una più densa serie di fatti pit­torici: una pittura di forte aggancio al reale, dove la perfetta resa formale è coniugata al radicamento profondo alle ragioni pulsionali del soggetto. Una pittura astratta dunque, dove, pure avver­tendo la presenza dell’uomo e delle cose, non c’è concessione al racconto, e rifiuto netto a intendere il quadro come contenito­re di colori e segni, di una pratica che, anziché evidenziare, celi i suoi nessi costitutivi: attraverso un’immersione nel nucleo del­la pittura, Verna risale riportandone alla luce progressivamente l’immagine.

Attualmente assistiamo a un alleggerimento e a una maggiore complessità nella sintassi, sempre più compromessa con proce­dimenti manuali raffinatissimi e con le materie, permeata dal fa­scino seducente di un evento che cattura la mente nei suoi pro­cessi stratificati e abbacina i sensi, conducendoci fino al suo cen­tro più caldo e profondo. La maggiore libertà espressiva dell’ele­mento cromatico, in relazioni ritmiche di segno-colore, introdu­ce all’ambiguità dell’immagine nutrita da un’urgenza espressi­va latamente lirica e evocativa. Ogni tono sostiene e sospinge gli altri in un crescendo emotivo mai esaltato: il quadro non è com­piuto se non quando la saturazione è completa, al massimo del valore. All’addizione del colore corrisponde la sottrazione della materia in un procedimento formativo interno al quadro, impo­stato su un concetto di durata, un tempo lento e stratificato.

Claudio Verna vive la pittura come uno strumento di conoscen­za di sé e della realtà, ed essendo questa attuale una realtà di crisi la pittura non può, in qualche modo, non rispecchiarla: la sua leggerezza e solarità non sono mai ostentazione aproblema­tica, in quanto contengono inquietudine, ansia, ombra. Nello stes­so tempo, questo, è un modo positivo per affrontarla senza farsi condurre “alla disperazione del postmoderno e alla sua cinica mancanza di prospettive, neanche però, all’illusione di un certo credo razionalista prefigurante un universo socialdemocratico go­vernato da designers o computers”.

Egli ci ricorda che un artista vive la crisi “impegnandosi nel la­voro con tutte le forze e persino le sue contraddizioni, ma senza dimenticare che l’opera testimonierà della sua capacità e del suo valore quanto più attraverserà i luoghi impervi e misteriosi del profondo, quanto più parlerà una lingua che accetta di compro­mettersi con la memoria, con la natura, con i sentimenti, con la poesia”. Claudio pronuncia queste parole senza timore, parole dimenticate nel vocabolario moderno dell’arte: ma “perché – si chiede, accendendosi nello sguardo – tenere gelosamente na­scoste nel cassetto dei tabù la voglia e la speranza di emozioni che sono poi la ragione stessa dell’arte?”. “Insomma, basta con la regola che corregge l’emozione – continua raffreddando l’em­pito della voce – viva l’emozione che sconfigge la regola e la fa prigioniera per non essere schiavi di periodiche lezioncine di stile, dimenticando il rischio e la vertigine di ambizioni più alte”.

Dà coraggio ascoltare queste parole, sapere che il destino del­l’arte sia in mano a spiriti così forti e liberi, che mantengono in­tatta quella capacità irriducibilmente poetica di rinnovare il desi­derio, di reiventarsi, di esserci direttamente per lanciarsi ancora l’ennesima sfida, senza falsi ottimismi né garanzie di razionali­tà. Lo sa bene, Claudio, che questa è la premessa necessaria e indispensabile per qualsiasi lavoro.