1988 - Giuseppe AppellaVerna: il colore come identificazione, catalogo antologica Museo Civico d’Arte Contemporanea di Gibellina, luglio 1988

Nel 1979, a chiusura della monografia edita da Politi, Claudio Verna concludeva: «Intutti questi anni, mi sono spesso fatto questa domanda: la pittura, nonostante il peso enorme della tradizione e dei condizionamenti storici, ha sempre la capacità di proporsi come disciplina per fare arte, e possibilmente grande arte? Ho sempre risposto di si, ad una condizione: che della pittura si recuperino prima tutte le potenzialità con una indagine accanita, profonda, critica insomma, dei suoi elementi costitutivi, della struttura, della sua storia. Io mi sono impegnato in questa analisi, per giungere finalmente ad una maggiore libertà di artista, alla mia libertà di artista… So con certezza che questo atteggiamento mi ha portato ad un ripensamento continuo di tutto il mio lavoro… si è stabilita una sorta di contemporaneità, ma nello stesso tempo di rapporto critico, tra le varie fasi del mio lavoro. Per cui mi è possibile accostare opere del 1959 ad altre del 1978 senza troppo timore dei possibili equivoci. Le opere sono diverse. La struttura, la tecnica, il linguaggio sono differenti… ma le une possono aiutare a capire le altre e viceversa… la mia esperienza non si è arricchita soltanto perché disponevo di nuovi elementi, ma perché questi ultimi hanno sempre generato reazioni a catena con i dati di cui già disponevo».

L’indagine accanita degli elementi costruttivi della pittura, il ripensamento continuo e le reazioni a catena generate da questo rapporto critico con il proprio lavoro, i padri ideali più volte dichiarati (Matisse-il colore, Twombly-il segno, Gorky-la grazia) dimostrano quanto Verna sia solo esteriormente legato alle correnti della pittura che attraversano questi ultimi trent’anni, a certi precisi vincoli lessicali cui corrispondono un’attitudine (cfr. Tempera, 1959) e dei contenuti (cfr. Pittura, 1959) che se ne discostano profondamente.

Essere cresciuto in Umbria e in Toscana, regioni che più appaiono a perfetta misura d’uomo, dove l’ambiente è meno ostile e tutto sembra armonicamente adattato alla vita, deve pur aver avuto la sua importanza se ha evitato a Verna quell’avventura disperata che fu il ripiegarsi dell’informale verso l’autobiografismo, la contemplazione e il senso inquieto, quasi angoscioso, dagli esiti «virtuosi», in momenti non ancora sciolti dalle grandi spinte del razionalismo e dell’individualismo espressionistico.

Verna, forse senza piena consapevolezza, saltava a pié pari i termini stessi della crisi concettuale della pittura e rendeva pubblico un suo momento aurorale, fondamentalmente lirico, che vedeva lo sciogliersi del dinamismo in canto variegato (da riflessioni sulla pittura?) e quindi il quadro già ricco di un contenuto interpersonale, che mentre indagava sugli aspetti peculiari della propria area culturale, non ricusava la tradizione. Ecco, allora, presentarsi le trasparenze, l’accostamento dei toni (cfr. Tempera, 1960) in un ritmo sostenuto che non accetta gli abbandoni (cfr. Giano, 1964); il rifiuto di porsi come immagine (cfr. Astrazione, 1965) ma piuttosto come uno snodo (cfr. Esulta nel verde, 1967) di meditazioni sulla pittura (Klee e Licini, … ) già organizzata saldamente sul filo della logica, impostata nitidamente in una nuova dimensione con procedimenti costruttivi di tipo emblematico dai chiari riferimenti all’iconografia urbana (cfr. Emergenza, 1969). La pittura diventa un mezzo, «un semplice mezzo che può essere per alcuni più congeniale di altri alla ricerca di un proprio mondo linguistico». E Pittura (1974) o Archipittura (1975-76) sono i titoli delle opere che Verna dipinge, privilegiando il colore, per esplorare i fenomeni della percezione visiva in modo oggettivo e pragmatico (e quindi con natura emotiva piuttosto che intellettualistica) senza che ciò significhi adesione alla teoria dell’«opera aperta».

Verna è lontano dalle correnti razionalistiche, anche se incanala il suo lavoro su analisi di temi, punti di misurazione della superficie e dei suoi spazi, relazioni di elementi disposti a sequenza e apparentemente cristallizzati in categorie che dalla trasformazione basica del procedimento astratto purista pervengono al prismatico costruttivismo dì luce-volume-colore, (cfr. Visione 7, 1970).

Coraggiosamente, determinato a rispettare le potenzialità della pittura sul piano metodologico, sfugge alle antitesi e alle diversità delle poetiche degli anni Sessanta, prima (Pop romana – Arte povera) e degli anni Settanta, poi (Nuova Pittura – Pittura Pittura), che ripropongono temi critici vecchi di decenni o recuperi di esistenzialità gestuale tipici dell’informale. E’ sempre e solo una l’esigenza: superare il rapporto uomo-natura tuttora fondato sulla contrapposizione, quando – al contrario – la maggiore aspirazione è trovare nella natura le proprie radici (cfr. con i pastelli del 1980-1985) istituendo con essa una connessione ideale che proprio il colore riesce a mettere in tensione ottenendo una sua fusione con il disegno («disegnare con il colore») e quindi un punto di incontro tra l’elemento emotivo e l’elemento razionale che in opere come Cromopaesaggio (1960) e Di ritorno da Colonia (1981) avviene con uno straordinario scatto di energia.

E l’empito d’energia a liberarlo dalla griglia geometrica, isolata, nel 1977, dal contesto sintattico generale senza perdere di significato; a recuperare, nel 1982, il gesto e il segno scatenando una serie di associazioni obbligate e fortemente enigmatiche, dove la pennellata ha funzione di commento e di trovata plastica; a riportarlo all’identificazione progressiva dell’immagine della pittura rintracciando, attraverso il colore, la strada diretta della percezione sensitiva senza la necessità di dover ricorrere alla coscienza; a porre lo spazio come estensione vitale, d’attenzione e di contemplazione, quindi pronto ad affrontare una qualsiasi esperienza senza prima limitarla.

La presa di coscienza dei valori scientifici del colore, mediante le sperimentazioni dei parametri di tonalità, chiarezza e saturazione (secondo una sintassi che da Itten-Vordenberge perviene a Bill) e, al tempo stesso, basandosi sul paradosso tra metafora poetica e immagine concreta; l’urgenza di non perdere il contatto fisico col quadro, portano Verna a un’interpretazione più libera e forse anche più lucida dell’elemento cromatico, alla conquista di uno spazio colorato dove riacquistare temi, soggetti, avvenimenti della propria intelligenza emotiva.

Negli ultimi anni questa urgenza di raggiungere una vitalità sensibile e non scientifica del colore ha una posizione di notevole significato che spinge Verna a iterare certe immagini, a dichiararle e subito a contraddirle. La distillazione dell’idea avviene attraverso la spoliazione del disegno e l’animazione della materia (cfr. Il clamore dell’estate, 1984). La tensione del colore a corrispondere, con dolce violenza espressiva, all’ambiguità dell’immagine (cfr. Enigma, 1985), si stabilizza in una misura che sia anche spazio mobile (cfr. Intermezzo, 1984).

In questa tensione c’è l’arcana e rigorosa suggestione della forma: animata, schematizzata, soprattutto disposta ad aderire alla qualità della «cosa» dipinta come entità indipendente, che si mitre di tutto o della sola struttura di questo tutto o delle semplici relazioni cromatiche che questi sottende o del magico, luminosissimo spazio tagliatevi intorno.

La pittura, dunque, strumento di conoscenza di sé e della realtà; attaccamento alle strutture organiche dell’immagine. «Non dipingo prima di vedere. Non cerco altro che la pittura che tutti possono vedere», scriveva Nicolas De Stael, nel 1950, a Douglas Couper.