1987 - Elena PontiggiaClaudio Verna, “II muro della pittura”, catalogo personale Galleria Morone 6, Milano, novembre 1987

Lo spazio della pittura è un muro, ma tutti gli uccelli dei mondo vi volano dentro». Nicolas De Staёl

La modernità, in Pittura, nasce da un’inimicizia con lo spazio. Quando De Stael scrive: «Lo spazio della pittura è un muro» si serve di una metafora che non si adatta a tutta la pittura, ma solo a quella che, tra non pochi equivoci, si è definita moderna. II quadro, nel Rinascimento, si apre verso lo sfondo come una finestra: la tela è un teatro in cui gli attori si dispongono in ordine decrescente. Il quadro rinascimentale forma, per così dire, un vuoto» (Delaunay).

Invece su un tavolino di Cézanne non si posano oggetti. Mele, arance e vasi non stanno sul tavolo, ma davanti ad esso. Il tavolo è già un muro, su cui le cose si possono al massimo inchiodare. Lo spazio non è una culla già preparata che attende gli oggetti (Kant aveva già capito che non è una “forma a priori”): semmai nasce con gli oggetti, o meglio è un loro precario attributo.

E tuttavia la frase di De Stael continua, accennando a un infinito di voli. La perdita della profondità prospettica, la parete chiusa della tela è compensata da un intensificarsi irrefrenabile dei movimento, dal volare dei segni. Che è, e non potrebbe essere diversamente, un volo mentale, un sogno.

Osserviamo ora queste opere di Claudio Verna. Anche qui la superficie del quadro agisce come una parete, come un limite. Il colore la invade chiuso e denso, come un sipario. Su questa parete emergono matasse di segni: cunei imperfetti, virgole, segmenti che si aggregano e si sovrappongono in un disordine ansioso. Le pennellate si urtano tra di loro, sbattono l’una contro l’altra come ali di rondine (ma anche nel senso a cui alludeva Dante: «O insensata cura dei mortali/quanti son difettivi sillogismi/che vi fanno lì in basso sbatter l’ali»).

Dunque la pittura di Verna, all’apparenza così luminosa e melodica, porta in sé un’inquietudine profonda: un dibattersi, un agitarsi arruffato dei segni che devono farsi spazio perché la vita è movimento, e che nello stesso tempo non seguono uno schema fissato in anticipo, ma procedono a urti e a raffiche, secondo tracciati imprecisi. Forse anche la storia, a volerla esprimere con un’immagine, è questo calpestarsi successivo di segni, questo aggregarsi insieme energico e confuso di orme e di gesti..

Nelle opere di Verna non esiste una geometria coercitiva, un piano regolatore. E la sottile tensione che nasce dai suoi segni spettinati è tanto più coinvolgente, quanto più l’artista si tiene lontano dalla gestualità totale, dalla retorica del caos. I suoi sono gesti brevi, misurati che aspirerebbero alla nitidezza e sembrano soffrire per l’ineluttabile irregolarità che li percorre. Del resto la vita non è un’invenzione dei matematici e la vitalità di queste opere (vitalità, non vitalismo) nasce proprio dalla mobile scompostezza delle pennellate.

Colpisce, in questi nuclei o ingorghi di gesti, prima di tutto il colore: un colore mite, primaverile, scaldato a fuoco lento, pervaso da un’intensità senza eccessi. E’ un colore mentale, che non deriva da un’impressione immediata, ma dai filtri dei pensiero e della memoria. La sua è una serenità non eccitata, una commozione silenziosa.

Il catalogo della tavolozza di Verna comprende arancioni tiepidi, viola che esplorano la propria estensione dalle sfumature dell’indaco a quelle dei ciclamino, rosa antichi e nuovi, gialli d’acqua ferruginosa, azzurri di velluto logoro… Il suo colore nasce da un’emozione controllata, e racconta insieme l’emozione e il controllo, le ragioni del sentimento e quelle della razionalità. Difficilmente una pittura è così direttamente lirica e nello stesso tempo così gelosamente reticente. Le si addice il tono pacato, una ricerca di equilibrio espressivo. Quella medietas in cui, secondo gli antichi, risiedeva la virtus, anche estetica. Accanto al linguaggio del colore si assiste in queste opere a un tentativo di costruzione.   Il segno, che nasce dal colore, cerca di creare un disegno, rovesciando la consueta gerarchia. Si individuano, tra le pennellate, agganci elementari, angoli retti sbrecciati, quadrati slogati e ammaccati, triangoli disuniti. Il segno non è mai isolato.

Questa ricerca costruttiva da luogo così a un’architettura sconfitta. E’ la croce tumefatta di Socna, che forse avrebbe potuto assomigliare a una bandiera, campita sul succo d’arancia dello sfondo, e invece esibisce i propri storti gonfiori; sono i rettangoli di Immagine persa, che derivano l’uno dall’altro come comici concentriche, ma non hanno contorni se non slabbrati; è il mosaico di Costruzione, dalle tessere malate, dalla calce che non tiene: vi appare un tempio sconnesso, dal frontone sospeso su colonne traballanti; è, ancora, il gomitolo di Tout rime, i cui fili non stanno più insieme.

E’ un altro aspetto di quel disordine a cui prima si accennava, la nostalgia di questa pittura per una costruzione. Nostalgia, o desiderio, continuamente frustrati e continuamente nuovi.

Ansia, groviglio, impossibilità di costruzione… Potremmo aggiungere diffidenza verso il linguaggio, o meglio consapevolezza della tremenda fatica dei linguaggio (i quadri di Verna, dei resto, hanno incubazioni e gestazioni lentissime).

Tutti questi elementi allarmanti sono dissimulati in un discorso affabile, in fisionomia perfino sorridenti.

E’ un singolare “privilegio” dei nostri anni quello di eludere i problemi (o la mancanza di problemi, che è ancora più temibile quando coincide con un inerte scetticismo) ostentando l’ironia o l’euforia. La pittura di Verna non è né ironica, né euforica. Tuttavia sa essere solare, lieta, e, vorremmo dire, leggera. In questo, anche, consiste la sua attualità.