1986 – Giovanni Maria AccameClaudio Verna alle origini del colore, catalogo personale Casa del Machiavelli, San Casciano Val di Pesa, luglio 1986

C’è una pittura che ci porta lontano, fuori, all’esterno di se stessa, che procede quasi dimenticandosi o che comunque noi dimentichiamo. C’è invece una pittura che ci afferra, ci costringe a seguirla, una pittura che vuole essere presente e con la sua presenza costituisce motivo di continua attesa. Questa è la pittura di Verna, che ci attende e ci costringe a attendere.

Un lavoro che procede secondo un andamento particolare e ininterrotto: arrivare alla propria profondità. Raggiungersi. Questo ha significato per Verna un’esperienza per più aspetti tormentata, almeno nel senso di volere far coincidere, sempre, la teoria e la ragione analitica con la pratica e l’emozione. Ciò ha lasciato una traccia nelle sue opere, visibile, riscontrabile, è il segno dell’inquietudine. Quell’attesa che attende e si fa attenzione.

Attenzione, inquietudine, sono già presenti in Verna dagli anni ’60. Geometria e colore venivano usati nelle loro diverse possibilità, sempre però con una ricerca dello scarto, della lieve discordanza, della sbavatura, dello slittamento. Geometria e colore si affermavano nel porsi continuamente in discussione. Non erano assoluti, ma problemi entro cui si apriva un varco e in questo noi potevamo penetrare e cogliere più di quanto non appariva.

L’idea di percorrere uno spazio nei sensi percorribili e, apparentemente, impercorribili, diviene il tema centrale del lavoro degli anni’70. Qui è sempre il colore, la sua presenza dirompente, anche quando manifestata in apparenti monocromie o lungo esigui margini, che supera e travalica il dato puramente spaziale. L’indicazione, la traccia dello spazio è in realtà una griglia che da un lato provoca, stimola, tende al massimo le stesure del colore, dall’altro ha una funzione di maggiore scandaglio per la sua stessa lettura. Una percezione che viene acuita e si affina nello sguardo e nella mente.

Sulla componente concettuale di questa pittura degli anni ’70 si è molto insistito. Ho già avuto occasione di scrivere (Ortelli, catalogo Padiglione d’arte contemporanea, Milano, 1984) della distinzione che si rende necessaria tra il mentale del concettualismo e quello effettivamente presente nelle pratiche del “Fare pittura” di quegli anni. La Conceptual Art procede infatti, nel suo sviluppo più rigoroso, verso una totale eliminazione della presenza oggettuale e della stimolazione sensoriale, mentre questa pittura e la sua componente mentale affermano e potenziano proprio tutta la gamma delle proprietà fattuali, materiali e percettive. L’identità stessa di queste pratiche pittoriche è legata essenzialmente ai valori sensibili, una sensibilità applicata nel segno della riflessione, ma si deve ricordare come la riflessione non contraddica o impedisca l’emozione.

E’ una emotività riflessiva che percorre e distingue il lavoro di Verna di quel periodo, ma non solo di quello. Le componenti in questo caso non sonò scindibili anche se è possibile distinguerle nella loro presenza attiva. Una presenza che si è mantenuta costante negli anni, contraddicendo interpretazioni troppo semplicistiche. Verna ha sempre pensato il quadro. E la sua pittura è stata ed è una pittura pensata.

Uno degli aspetti più inquietanti e che maggiormente mi coinvolge di fronte a questi lavori è proprio il rapporto tra pensiero e pittura. Tra pensiero e, in questo caso, colore. La prima indicazione, il primo rapporto che la tela dipinta stabilisce con le profondità del pensiero, sono le stratificazioni. Questa pittura si realizza con stesure successive e non solo per necessità tecniche, il suo avvicinamento alla superficie è anche, contemporaneamente, un raggiungimento del proprio spessore. 1 due sensi cioè sono percorsi contemporaneamente.

Un respiro della pittura che corrisponde al dilatarsi del pensiero. Un movimento parallelo e un alimento reciproco. Per questo il colore, negli anni più recenti, ha assunto un ruolo primario, riuscendo a iniziare il proprio percorso da quei limiti che si sarebbe detto definitivi, esausti. Verna riprende delle modalità del colore che sono immerse nel desiderio di un suo esserci diretto, esplicito, non più misurato e filtrato come accadeva negli anni ’70.

La pienezza dello spazio è ora frutto di una pittura che si riproduce trasformandosi e ogni volta ritrovandosi. Non c’è infatti smarrimento, incertezza, ma una distesa esperienza che si compie sulla tela. Un’esperienza articolata in tempi e stesure, in rapidi segni e larghe campiture. Un’esperienza che vuole essere e rimanere se stessa, non vuole indicare soluzioni, fornire prove, ma seguire delle tracce, sollevare interrogativi.

Ancora una volta pittura che riflette sulla pittura. Una riflessione però a cui interessa meno analizzare, ma più dilatare il proprio ambito, superare i limiti di un pensiero che si pensa e accogliere ciò che è oltre facendone motivo di sollecitazione profonda. Così per il tempo, non più tempo di percezione chiuso e concentrato, ma tempo come esperienza di sommovimenti esterni, distanze avvicinate. Un fuori che viene riconosciuto e si fa sostanza intima, un riapparire di movimenti passati, di periodi superati che Verna si trova davanti.

E’ accaduto per un gruppo di tempere del ’59 così lontane e straordinariamente presenti. Presenti nell’attualità del suo lavoro oggi, non per un ritorno al passato, ma per una verifica che non tutto ciò che si crede passato è trascorso. C’è un tempo anteriore che ci attende, un pensiero interrotto che può nuovamente pensare.

Vedo in questa pittura un confluire di temi che indica il bisogno sentito da Verna di riportare alla tela quell’impeto che trascina e trasforma, di rendere visibile quel moto estremo che appartiene al quadro e fa il quadro. Tutto ciò nasce da un rapporto interno e appassionato tra l’artista e l’opera, dove la pittura e il pensiero che la comprende si confrontano risalendo alle proprie radici, coinvolgendo cultura e sentimenti, con rallentamenti e accelerazioni che corrispondono alle zone di volta in volta accostate e attraversate dal lavoro.

In Corolla, un olio del ’79, sono già presenti quei ritmi e quegli spazi ritmati che saranno sempre più incalzanti nel lavoro successivo. Il segno, la traccia visibile e ripetuta che si distingue e muove la pittura non è un gesto sovrapposto, un’azione che vuole essere tale. Il segno qui nasce dal colore, ne è un’esigenza profonda e questa profondità interpreta e rivela. Affiorano segni dalla profondità per condensarsi, concentrarsi, o ammorbidirsi e divenire frammenti, come in Shahrazad (1985), La natura siamo noi (1985), Con la testa tra le nuvole (1984). Oppure, come nella grande tela Il labirinto e l’artifìcio (1986), il colore esprime un concatenarsi di segni che ne trasmettono l’ansia e al tempo stesso la potenza. Una scarica dienergia che esalta il movimento di una pittura instabile perché insofferente. Pittura che ama le differenze, i trasalimenti, i pensieri nomadi che ritornano.

Verna, con i lavori degli ultimi anni, ha così dilatato il proprio spazio pittorico, esteso un territorio che prima veniva puntigliosamente misurato. E’ il senso di questa estensione che oggi prevale, di un sommovimento che porta alla superficie e trascina al fondo. Il senso di un dilatarsi che rifiuta il finito, il compiuto, e procede sulla scorta dello sguardo. Procede con una intensità che si direbbe senza pause, ma è solo perché anche le pause sanno essere intense, pronte a superarsi e a riproporsi. Una pittura che sembra attentare a se stessa, che vuole esistere per andare oltre, quell’irraggiungibile oltre che è la propria origine.