1986 - Filiberto MennaClaudio Verna, catalogo personale Palazzo dei Leoni, Messina, marzo 1986

Con Claudio Verna ho un lungo sodalizio e questo è il mio terzo appuntamento con la sua opera. E mi pare significativo che i nostri «incontri» si dispongano lungo un percorso che tocca ormai quasi i vent’anni e siano scanditi da intervalli di lunga durata. Questo perché il silenzio della scrittura non ha interrotto lo scambio tra l’artista e il critico ma lo ha soltanto spostato su un altro piano, quello della “critica parlata”, come diceva Thibaudet per indicare un momento fondamentale della riflessione critica che è, in qualche misura, all’origine di ogni altra interpretazione. Lo sapeva bene Sainte-Beuve, del resto, quando dichiarava che “la vraie critique de Paris se fait en causant”.

Con Verna si parla volentieri e volentieri lui parla del suo lavoro, come pure dei lavori degli altri artisti, suoi compagni di strada o più anziani o più giovani di lui. Mi ha colpito soprattutto l’attenzione con cui Verna guarda ai fatti recenti dell’arte, il modo di leggere dall’interno i procedimenti formativi anche più distanti dai suoi. Il fatto è che Verna ha sempre accompagnato il proprio lavoro di artista con una assidua, ininterrotta riflessione critica o, forse, sarebbe più esatto dire con una attenzione intellettuale intrinsecamente legata al fare.

In qualche modo, per lui, fare e parlare pittura sono la stessa cosa, nel senso che le sue parole hanno la consistenza materiale, fisica di un gesto pittorico, di una traccia segnica, e le opere recano in sé lo stacco, lo scollamento che si accompagnano sempre ai processi di autoriflessione.

Per questa ragione l’intero percorso artistico di Verna si presenta sotto il segno della continuità e della coerenza, tanto più significative e determinanti in quanto coerenza e continuità non si traducono in una sorta di movimento uniforme, in una storia monocorde.  Tutt’altro.

L’opera di Verna appare infatti continuamente attraversata da mutamenti sensibili, da una strutturazione in chiave geometrica degli anni sessanta alla pittura-pittura immediatamente successiva, in cui il colore accampa i propri diritti di protagonista, fino alle declinazioni di questi ultimi anni contrassegnate da una gestualità più libera e sbrigliata, più confidente, si direbbe, in una stretta e produttiva interazione tra pulsione e linguaggio. Ma al di là dei cambiamenti non è difficile individuare una linea continua che tiene insieme queste diverse fasi del lavoro artistico di Verna: basta osservare con un po’ di attenzione un’opera degli inizi per ritrovare in essa, in modi più o meno espliciti, certe caratteristiche che di volta in volta assumeranno il ruolo di dominanti linguistiche.

Di qui, appare legittimo impostare il discorso critico intorno all’opera di Verna sia insistendo sugli elementi di discontinuità sia su quelli di continuità e di coerenza interna. Così come risulta ingenuo (e in questa trappola è pure caduto qualcuno degli interpreti recenti) privilegiare la fase più recente in quanto più «libera», più «spontanea» e, in definitiva, più valida in quanto si sarebbe affrancata dalle precedenti intenzioni autoriflessive e analitiche: quasi che mettere in libera uscita le proprie pulsioni sia di per sé una garanzia maggiore di riuscita estetica rispetto alla messa in atto di procedimenti più marcatamente mentali.

L’opera di Verna non si presta a queste troppo facili contrapposizioni proprio perché vive della compresenza di istanze complementari, che agiscono simultaneamente e rivendicano un eguale diritto a un esito formale. L’artista ha avuto, infatti, il merito di accettare la contraddizione come un fattore produttivo e ha sempre considerato la superficie del quadro come un campo aperto di possibilità espressive che bisogna esplorare fino in fondo, senza scelte aprioristiche.

Questo aspetto dell’opera chiarisce un’altra caratteristica dell’artista, e cioè il suo atteggiamento di fondo contrassegnato contemporaneamente da una esigenza, fortemente avvertita, di controllo formale e da una non meno decisiva disponibilità ad accogliere i suggerimenti provenienti dagli strati profondi dell’io. Forse, il filo rosso che unisce i diversi momenti dei percorso artistico di Verna è da ritrovare proprio in una idea di costruzione, di costruzione del quadro, che non muove però da una idea a priori, da un progetto inteso in senso forte che pretende di incanalare entro argini sicuri, e tutti prevedibili in anticipo, le accidentalità del reale. Sicché il procedimento di formazione nasce e si sviluppa secondo una coerenza interna, in cui il momento sintattico della relazione dei segni tra loro è sempre presente e determinante; ma si tratta di una sintassi che sfugge, anche nella fase di più marcata analiticità, al rigorismo puramente concettuale per compromettersi con una complessità di fattura che fa i conti con la manualità e la materia.

Nell’opera di Verna, anche negli ultimi anni, quando cioè essa sembra immemore della precedente dominante mentale, esiste sempre un fattore analitico che sorregge il procedimento e lo scompone in una serie di eventi prima di pervenire al dato conclusivo; ma questo non è mai predeterminato, non è mai consegnato tutto a una idea e da questa dedotto con una pura operazione di inferenza.

L’analiticità che costituisce una costante del lavoro di Verna, un ulteriore elemento di continuità, si configura, quindi, non nei termini forti della tradizione razionalista e delle declinazioni concettuali, ma si presenta piuttosto come un atteggiamento intellettuale incline a impostare il lavoro pittorico sulla base di un pacato, morbido controllo mentale e di quella che definirei una memoria analitica recante con sé la consapevolezza del rapporto in ogni caso problematico che si instaura tra le ragioni del soggetto e quelle istituzionali del linguaggio.

Verna, del resto, ha insistito spesso, e con la consueta lucidità critica, sui tempi lenti, sulla durata, che contrassegnano i suoi procedimenti di formazione del quadro; come pure ha più volte riproposto la sua idea di pittura come un bene irrinunciabile, come un mezzo assolutamente insostituibile (anche quando tutto faceva pensare ad altro), nel momento stesso, tuttavia, in cui affermava la necessità di non accettarne le credenziali storiche senza un inventario, senza andare a vedere (e questo lo aveva detto Cézanne parlando della pittura dei grandi maestri del passato) come è fatta questa pittura.

«Il problema, ormai, è di sapere di quale pittura si parla. Perché il rischio più grosso è di ritenerla una specie di ritorno all’ordine o, nel migliore dei casi, una lunga eco della tradizione”. Ma così si ritorna al quadro come pezzo di bravura che, se mai è esistito, non ha più alcuna ragione di essere». Queste cose Verna le scriveva nel 72 e i fatti che si sono verificati di lì a poco hanno fin troppo confermato la realtà delle preoccupazioni espresse dall’artista sul destino, sulla sfortuna (allora) e sulla fortuna (subito dopo eccessiva) della pittura.

Della pittura o del quadro? Anche su questo punto Verna ci ha detto cose estremamente chiare e pertinenti, sia con le parole che con le opere. Ciò che Verna rifiuta è una pittura che diventa un puro e semplice pretesto per mettere su un quadro, intendendo con questo termine una storia, un racconto, un figurare per immagini, oppure, sul versante opposto, un assemblaggio di segni e di colori in funzione di copertura (di nascondimento) della superficie.

Ciò che Verna vuole affermare è, invece, la pittura, ossia una superficie intesa come luogo di infinite possibilità esplicative da selezionare e concretizzare con un procedimento lento, precario perfino, orientato verso la costruzione dell’opera. Una volta affermato (ma sarebbe meglio dire introiettato) questo principio di formazione, l’artista può veramente dipingere tutto, può aprirsi a tutte le suggestioni e accoglierle dentro la pittura, dal momento che egli sa bene (come diceva Braque) che ha bene le sue ragioni la pittura.

Le opere degli ultimi anni, intorno ai quali è costruita questa mostra, non possono essere comprese a fondo se non si tiene conto di questo atteggiamento costante che Verna assume di fronte alla costruzione del quadro: voglio dire che lo scarto, pur sensibile, che esse fanno registrare nei confronti della fase precedente, più «fredda», più direttamente coinvolta nei processi di verifica linguistica, mette sì in evidenza la capacità dell’artista di spostare continuamente il tiro, di reinventarsi di volta in volta, ma non mi sembra giustifichi (giova ribadirlo) alcune interpretazioni critiche recenti tendenzialmente incrini a creare una frattura tra momento «analitico» e momento «espressivo» o, quanto meno, a privilegiare quest’ultimo e a farne quasi una postazione privilegiata da cui rileggere l’intero percorso dell’artista.

La costanza di tenuta propria dell’opera di Verna non consente la elezione di luoghi privilegiati, a parte, s’intende, le opzioni di carattere più strettamente soggettivo, certamente legittime purché consapevoli di essere tali. Indicazioni, nondimeno, estremamente utili non fosse altro perché, con la loro varietà, consentono una rilettura continuamente mobile del lavoro di Verna e dimostrano come ogni momento di esso può essere assunto, di volta in volta, come postazione provvisoria per rileggere l’opera intera. E anche questo mi pare una conferma di una ipotesi interpretativa incline a ricondurre il lavoro artistico di Verna a un gioco di interazioni dinamiche tra istanze complementari, tra continuità e discontinuità, rigore della mente e varietà dell’emozione, chiarezza della superficie e vertigine del profondo.