1986 - Fabrizio D'AmicoMistero rosso, “La Repubblica”, Roma, 9 ottobre 1986

II rosso notturno è luogo misterioso di inattesi avvenimenti, di incontri e di scontri, di sensi non pacificati. Rapidi, i colpi di pennello piombano ad occupare quello spazio: un grumo di luce d’oro entra a sinistra, un rosso più acceso lo argina a destra; insieme fanno il ritmo della pagina pittorica, che è ansimante e spezzato, denso e sincopato.

Roma barocca, questo il titolo del dipinto, è un’opera di Claudio Verna (Guardiagrele, 1937) ora esposta alla Casa del Machiavelli presso Firenze, in una bella mostra di cose recenti di questo pittore. Già esponente di punta della pittura analitica, Verna attraversa da qualche anno una nuova, felice stagione, lontana ma non immemore del suo più recente passato. Una stagione che par proseguire un discorso da lui avviato, giovanissimo, a Firenze, quando appena iniziavano a declinare le fortune dell’informale.

Quasi all’inizio del percorso artistico di Verna, sullo scadere degli anni Cinquanta, si pone una piccola serie di tempere che l’autore conserva ancora gelosamente presso di sé; non perché siano, o l’autore creda che possano essere, opere perfette, ma perché dentro di esse c’è lo scarto decisivo della sua vita di pittore. E perché in nuce, forse un poco disordinatamente, su quelle carte, gomito a gomito, stanno tutti gli elementi della sua pittura futura: la luce, che lentamente trapassa dal foglio bianco ancora riflettente, dietro, le lievi stesure della tempera; il colore, qui limpido e gioioso; il gesto che deposita sulla tela, non più furente ma pensoso dì sé, curioso di verificare quale sarà, a giochi fatti, l’esito che avrà configurato sulla pagina pittorica.

Anche quando cede alla tentazione di ordinare l’immagine sul cardine della linea d’orizzonte, Verna scopre ormai qual è e rimarrà la sua vocazione: costruire pittura facendo unico affidamento sulle componenti essenziali ed esclusive del dipingere, rinunciando ad ogni emozione che non sia interna a quelle componenti.

S’avvia così, per lui come per qualche suo compagno di strada, un percorso che, lungo tutti gli anni Sessanta e ancora nei primi del decennio seguente, vede progressivamente restringersi gli argini entro cui – in ossequio ad un rigore mentale che si fa sempre più prepotente – va trattenuta la propria operosità.

La libertà (del gesto, dell’accostamento cromatico emozionale, di una luce imprevedibile e scardinatrice) viene intesa da Verna, più come una trasgressione metodica, come rischio, come ingiustificata deviazione da un sentiero aspro ma sicuro della sua meta.

Il fiato del concettuale alita forte su questi anni; Verna e i suoi compagni, più che il fascino, ne avvertono l’insidia. Credono ancora nella pittura, nella sua antica alchimia; ed è proprio per salvaguardarla da una morte predicata (e comunque da una “sfortuna” critica allora quasi assoluta) che ne riducono gli azzardi, che mettono in sordina le sue note più legate all’incontrollabile espressività individuale.

Sono allora alte pareti di pittura, sovente monocroma, che si alzano alla vista, mentre le commentano tralicci, intelaiature geometriche. Ma, a ben guardare, anche allora persiste sotterranea la trasgressione alla regola, così apparentemente dominante: si cela ai margini della tela sotto forma di impreviste sbavature di colore; oppure commenta direttamente la griglia geometrizzante, opponendole – con brevissimo, quasi impercettibile scarto – la struttura diversa dell’incastro cromatico.

Ora – anzi, a dir meglio, già da qualche anno a questa parte – Verna rimette in valore, rispetto alla regola che s’era imposto, l’eccezione a quella regola. Insinua nel dipinto libertà maggiori, ansie e speranze, suggestioni di una stagione che cambia (una splendida serie di quest’ultimo periodo è quella dei Clamori dell’inverno, della primavera, dell’estate, dell’autunno), memorie del suo passato lavoro. Perciò con solo apparente contraddizione Filiberto Menna parlava di recente, per Verna, di una «memoria analitica» che guida oggi l’opera del pittore, teso a far la sponda, di continuo, “tra le ragioni del soggetto e quelle istituzionali del linguaggio”.