1986 - Claudio CerritelliClaudio Verna, Immagini di pericolo, catalogo personale Galleria N 2 / Nuova 2000, Bologna, 1986

Quanto potere abbiano le riflessioni di Claudio Verna, i dialoghi o le interviste, i suoi scritti lucidi e costanti sul «fare pittura» è un problema che ha sempre messo in crisi il mio rapporto con le opere e che, oggi, mentre accompagno per la prima volta una sua mostra personale mi si rivela con profonda esitazione.

Sta di fatto che di fronte alla dimensione teorica di Verna ho sempre la sensazione di ricondurmi involontariamente verso la pittura, in quella zona misteriosa e opaca dove le buone intenzioni teoriche non hanno accesso se non per qualche istante, bagliore o vibrazione.

Così, affrontando la recente e di nuovo fortunata stagione pittorica di Verna torno ad interrogarmi su questo doppio piano del suo comportamento d’artista, certo uno dei più esemplari tra quelli maturati intorno alle ragioni della pittura di superficie dagli anni sessanta a noi. E interrogarsi vuoi dire cogliere i contatti o gli sconfinamenti, gli incastri o le distanze, ma anche le regole di reciproco equilibrio che portano teoria e pratica pittorica a recitare un’idea dell’arte con strumenti diversi e complementari.

In alcuni appunti per una conversazione al’Università di Roma (1985) Verna sottolinea che un pittore non dipinge solo con le mani e che d’altra parte non sarà certo la teoria a farlo diventare un artista: una riflessione impeccabile e al tempo stesso piena di turbamento, di autocritica e quasi d’ironia. II gioco infatti è proprio in questo rapporto, sempre rinnovato e mobile, Verna direbbe in “questo punto d’incontro di tut­te le contraddizioni, sintesi imprevista e imprevedibile, di teoria e pratica”.

Privilegiamo ora la pittura, il corpo delle opere che partecipano a questa prima mostra bolognese di Verna, entro cui la memoria del linguaggio diventa proiezione delle immagini attuali, attraverso forme e colori che rispondono fisicamente alle tensioni dell’artista.

C’è un’opera di questi anni che porta il titolo emblematico «Quadro di pericolo», un segnale che esprime la condizione dell’artista al di là delle definizioni di campo della attualità ma anche oltre la stessa terminologia su cui si è estenuata l’arte degli anni settanta: geometria, progetto, misurabilità del colore e del gesto, economia del supporto, rigore dell’emozione e via discorrendo. Non che questa grammatica sia stata cancellata, anzi rimane una funzione invisibile, certo costitutiva del dipingere, tuttavia di fronte alla giungla pittorica odierna Verna s’è alleggerito, la sua intransigenza ha scoperto nuove fonti di concentrazione, ha scelto di resistere come immagine fìsica che affiora sulla carta o sulla tela e non altrove, senza simulare rapporti con la tradizione perché già nutrita da essa secondo tempi, e meditazioni proprie.

In tal modo la pittura torna ad essere un rischio, un’immagine di pericolo appunto, riflette criticamente su se stessa ma è anche in grado di essere sorpresa da direzioni estranee al pensiero che la vorrebbe continuamente determinare come una scienza dell’espressione.

La pittura è così uno strumento irriducibile e poetico che nelle mani di Verna vive in modo profondo il sentimento della crisi, senza falsi ottimismi cromatici e neppure garanzie razionali, spinto verso i sensi dell’immaginario, capace di dubitare, eccedere, sbordare e infine agire oltre «i limiti imposti dalla disciplina».