1984 - Paolo BalmasClaudio Verna, in “Figure” n.7, Roma, 1984

Con la parola «pittura» si possono intendere cose diversissime. Quando i filosofi scrivevano ancora trattati di estetica, in genere, parlando della pittura si preoccupavano soprattutto di trovare a questa pratica che l’uomo sembra aver coltivato sin dai tempi più remoti una sistemazione, nel novero delle «belle arti», coerente con tutto l’insieme delle loro speculazioni. Un posto significativo all’incrocio delle diverse facoltà attribuite al soggetto che pensa ed agisce. I risultati a volte rasentavano la bizzarria altre volte ponevano effettivamente sul tappeto problemi con i quali ancora oggi non possiamo fare a meno di confrontarci. Quasi sempre tuttavia queste “sistemazioni” soffrivano, in un certo senso paradossalmente, di un difetto di astrazione, ossia in un modo o nell’altro, finivano per eleggere a perno, implicito o esplicito, di ogni riflessione la funzione rappresentativa della pittura, la sua capacità di produrre “apparenze”, di offrire agli occhi, in analogia e concorrenza con il mondo  dell’esperienza  sensibile ordinaria, dei  “simulacri” manipolati in maniera tale da garantire determinati effetti. A questa impostazione i cui limiti potrebbero essere definiti “storici”, non sfuggirono del tutto neppure pensatori grandi ed originalissimi come Kant ed Hegel che, per altro, si mantennero lontanissimi dal vedere nell’imitazione della natura il fine sostanziale dell’arte, e che sulla pittura in particolare ci hanno lasciato pagine di una modernità sorprendente, sfiorando entrambi, da angolature, s’intende, diverse, l’idea di un «in sé» della nostra disciplina.

I pittori invece, almeno a giudicare dal materiale “sparso” e discontinuo costituito dalle loro definizioni riflessioni e sentenze, sembrano aver avuto, si potrebbe quasi dire in ogni epoca, una freccia in più al loro arco, sembrano cioè aver sentito da sempre l’esigenza di distinguere tra ciò che la pittura «è» e ciò che con la pittura “si può fare”.

Naturalmente non stiamo qui affermando una improbabile sovrastorica compattezza attorno ad una non meglio identificata idea di tipo platonico. Stiamo solo cercando di ipotizzare una qualche consequenzialità tra consapevolezza, anche fabrile, della natura dello strumento usato e maggiore acutezza definitoria, quindi semantico-classificatoria. (Un significato in più per il termine “pittura”). A rischio di fare un discorso ozioso e, forse chissà, contraddetto da qualche esempio concreto, si potrebbe quasi dire che semmai un pittore avesse avuto, nel tentativo di definire la propria arte, un tipo d’interesse simile a quello dei filosofi sistematici del sette-ottocento, difficilmente sarebbe caduto nell’errore di cercare il “proprio” di essa esclusivamente in una delle sue applicazioni, sia pure l’unica in certi periodi ritenuta portatrice di una superiore dignità.

Riguardata da una tale postazione, in fin dei conti, la nascita stessa dell’astrattismo potrebbe essere considerata come uno sforzo teoreticamente avvertito di isolare e far emergere il “proprio” della pittura attraverso manifestazioni altre, appunto, delle sue “proprietà”. Ma, l’astrattismo, come tutti sanno, ha già una sua storia relativamente lunga e complessa che attraversa varie fasi e intenzioni diverse: dal lirismo alla costruttività, dal gestualismo al matericismo, dal gestaltismo alla scomposizione analitica. Tutte tappe differenti tra loro che per quanto riordinabili bene o male in una sorta di successione temporale ed epocale non si possono comunque dire linearmente ed evolutivamente conseguenti. Sicché si potrebbe anche affermare che l’inseguimento del «proprio» della pittura al di là della sponda della rappresentazione, lungi dall’aver ristretto i termini della questione, ha avuto invece l’effetto di allargare i confini di un territorio di caccia, tutto sommato, antichissimo. E tuttavia una sorta di percorso per tappe successive, iniziatesi a dire il vero di già sul terreno delle apparenze, come ha dimostrato Filiberto Menna nella sua “Linea Analitica dell’Arte Moderna”, può ben essere individuato. Individuato, intendiamo, come coinvolgente una fetta sostanziosa delle scorribande artistiche alla ricerca del “proprio” della pittura.

A ben guardare, però, tale percorso, sviluppatesi innegabilmente all’insegna di quella incoercibile vocazione all’analisi che caratterizza in toto il pensiero moderno, non lo si sarebbe potuto né costruire né ricostruire se all’interno di esso, o meglio, all’interno della storia stessa della pittura, non avesse agito come traguardo ideale, come fascinoso polo d’attrazione, una ulteriore categoria: quella dell’” imprescindibile”. Chiunque si sia occupato di storia della critica d’arte ha avuto modo di notare il curioso effetto che deriva dal contrasto tra l’identità, spesso anche di tono, delle varie dichiarazioni che artisti e critici di formazione e cultura diversissime, a distanza a volte anche di molti decenni, hanno sentito il bisogno di fare circa l’autopresentatività, la qualità oggettuale, il non voler essere altro che pura pittura, ecc. delle opere da loro considerate e le caratteristiche vistosamente non assimilabili tra loro con cui queste ad evidenza ci si presentano.

Questo effetto è dovuto appunto al fatto che l’idea di una possibile convergenza tra ricerca del «proprio» e attenzione per l’“imprescindibile”  ha cominciato a far sentire il proprio peso a livello di enunciazione di poetica assai prima che artisti come Mondrian o Malevic decidessero programmaticamente di far coincidere le due cose all’interno della propria ricerca, ossia di far emergere il primo limitandosi al secondo. Come dire, finché ci si è accontentati di perseguire genericamente per la pittura una ricerca-evidenziazione di ciò che la caratterizza in quanto tale l’“occasione” è rimasta una valenza libera in balia delle suggestioni esterne e dei residui delle più svariate tradizioni; quando invece ci si è decisi per una coincidenza con l’isolamento dell’imprescindibile le “occasioni” hanno chiesto di essere “messe in forma” attraverso procedimenti che avessero anche un valore “dichiarativo” (la geometria come simbolo di un ordine che sta al di là delle apparenze; l’individuazione di elementari còlti secondo modalità diverse nell’atto di esercitare funzioni connesse a proprietà più o meno obbiettivamente dimostrabili; la modularità come fattore portante di variazioni seriali ecc.). Densità ed eterogeneità si sono trasformate in tendenziale trasparenza, come accade per lo studio dei cristalli, la messa a fuoco della struttura è divenuta criterio indispensabile di definizione-classificazione.

A questo punto chi legge si sarà già chiesto il perché di questo nostro sforzo di «ridire» cose già note attraverso il privilegiamento di una terminologia né originale né particolarmente appropriata.

Cosa ha a che vedere tutto questo con il lavoro di Claudio Verna? Scopriamo subito le carte. Fin qui non abbiamo fatto altro mettere a punto e quindi distribuire su di una ideale scacchiera i “pezzi” che ci sono necessari per poter parlare di Verna partendo dal centro del problema che la sua ricerca ha posto e viene progressivamente indagando, dando insemina le coordinate di essa non come punto di arrivo bensì come punto di partenza del nostro discorso.

La fama di Verna, come è noto, è legata in misura non indifferente alle vicende della cosiddetta “nuova pittura” o “pittura – pittura”, una corrente, emersa in area europea attorno alla prima metà degli anni settanta, il cui assunto di base potrebbe essere ricondotto alla fortunata formula “fare un discorso sulla pittura nel far concretamente pittura” (Menna).

La considerazione di questo fatto ben lungi dall’esaurire la questione di una collocazione storico-critica dell’operare tuttora vitalissimo del nostro artista, comporta innegabilmente qualche pericolo di fraintendimento in più rispetto a quelli da cui sempre ci si deve guardare quando si ha a che fare con personaggi che sono stati veri e propri protagonisti, e non semplici comparse, in un qualche “movimento”.

Un giudizio corrente, e limitatamente a certi risvolti non del tutto infondato, sulla “pittura – pittura” è infatti quello secondo cui essa non sarebbe stata altro che un espediente (sapientemente corroborato dagli entusiasmi di una critica imbevuta di strutturalismo semiologico) per riproporre senza vistose fratture rispetto al montante concettualismo, ed anzi sulla scia di esso, un ritorno al “quadro dipinto” gratificante su tutti i fronti. Una sorta di “concettualismo vestito” dunque… rimpolpato di materia pittorica. Una simile obiezione che, tutto sommato, viene ad unirsi attraverso i sentieri di un malinteso senno di poi, alle feroci critiche di matrice soprattutto poverista da cui Verna e compagni dovettero a suo tempo difendersi, nasce da un errore di prospettiva storica a fondamento del quale, volendo esprimersi nei termini qui proposti, sta l’aver dato per scontata la conclusione secondo cui nel concettualismo sarebbe da individuarsi l’approdo ultimo ed inevitabile, il punto di non ritorno, di un lungo inseguimento dell’imprescindibile pittorico. Una conclusione cioè che, per quanto apparentemente plausibile e confortata da dati storici reali, non tiene conto del fatto che l’arte concettuale, pur prendendo le mosse anche da esperienze ancora interne alla pittura (come quelle ad es. di un Ad Reinhardt) ha posto in essere un autentico salto logico dalla specie al genere, di cui, non a caso, un autore come Kosuth si mostra pienamente consapevole.

Un salto logico che ha di fatto annullato ogni possibile coincidenza tra ricerca del proprio e ricerca dell’imprescindibile, trasformando decisamente quest’ultima in una coraggiosa, ma sostanzialmente sprovveduta, tensione verso ben altro imprescindibile: quello dell’arte in generale.

Il tragitto pittorico di Verna, che è assolutamente necessario riconsiderare nella sua globalità di “avventura in progress” è invece palese affermazione di un atteggiamento mentale radicalmente, e, in senso filosofico, forse addirittura “tradizionalmente” opposto. In altre parole Verna rifiutandosi di compiere il salto di cui sopra, o meglio continuando a credere nel valore artistico-conoscitivo di una serrata esplorazione delle proprietà del linguaggio pittorico, non ha semplicemente preso posizione contro l’idea che la ulteriore praticabilità o meno di un determinato mezzo espressivo possa essere correttamente dedotta a partire da generalissime condizioni per giunta ricavate dai suoi stessi trascorsi in virtù di uno pseudoprocedimento induttivo (spesso maldestramente ibridato con istanze storico sociologiche tutte appiattite sul presente), ma ha più in generale ribadito attraverso un empirismo sanamente orientato ad un proficuo incontro con considerazioni di natura  “trascendentale” la sua convinzione che nulla, mentre l’estetica si ritrova giustamente impegnata a fare i suoi conti con l’epistemologia, possa impedire alla prassi artistica di insistere nel fare a sua volta i propri “per vie naturali” con la semplice facoltà del giudizio.

A questo punto, prese le dovute distanze da tutta una serie di equivoci che avrebbero potuto innescarsi se non si fosse evidenziato il carattere propositivo e tutt’altro che arroccato su posizioni meramente difensive dell’interesse di Verna per il quadro “dipinto” e per la “qualità” nel dipingere, diviene assai più agevole calarsi nel vivo delle sue scelte evidenziandone, al di là degli specifici riferimenti storici, che l’economia stessa di questo scritto non sarebbe in grado di assumere con la dovuta attenzione, i motivi di continuità rispetto a quella tradizione del moderno che ha visto nell’esperienza dell’astrattismo, pre e postbellico, europeo ed americano, un momento insostituibile di vivente, e a volte bruciante, riflessione.

A tale scopo ci viene in soccorso il terzo ed ultimo “pezzo” da noi messo in gioco chiamando in causa la categoria, forse un po’ infelice, di “occasione”, (“Occasione” – lo ricordiamo, – rispetto al far emergere il “proprio” della pittura inteso come “fine“). Ora, per comprendere in che senso Verna abbia messo in forma ed articolato le sue “occasioni”, non c’è che da ripercorrere brevemente, purtroppo schematizzandole, le tappe del suo misuratissimo (ma non certo privo di slanci e di consapevolezza della natura inevitabilmente compromissoria del fare pittura) costruirsi una frontiera.

Una prima fase è quella di ascendenza informale culminata nelle mostre del periodo fiorentino (1959-60-61) affidate come Verna stesso ha avuto modo di sottolineare “solo all’entusiasmo“. In questo periodo egli dipinge assai liberamente e quasi d’istinto, ma si accorge ben presto che il suo materiale espressivo chiede con sempre maggior forza di essere organizzato a livelli diversi, ricerca quasi autonomamente un suo ordine fatto di nodi sia formati che coloristici.

Segue una fase di profondo ripensamento che comporta lunghi anni di silenzio espositivo. Verna torna alle mostre nel 67, ha lavorato accanitamente ed ha le idee molto più chiare. Ciò che abbiamo chiamato “messa in forma” si viene precisando come tale, l’organizzazione del quadro vede assottigliarsi notevolmente tutti gli aspetti simbolici, non rigorosamente metaoperativi, del suo valore “dichiarativo”. Se la risonanza informale del primo astrattismo del nostro risultava, sia pure nella limpidezza di un gesto ad evidenza avulso da ogni ostentazione di drammaticità, ancora in qualche modo connessa ad una problematica esistenziale relativa, per così dire, all’uomo in generale, alla “umanità“, ora l’uomo cui la sua pittura interessa è più semplicemente l’uomo in quanto creatore e fruitore di immagini, sperimentatore di tangibili verità poetico-percettive la cui aspirazione all’universalità si fa forte di una progressiva eliminazione di ogni fattore di disturbo, quasi di una “distillazione” il cui limite tende a porsi come “naturale” o meglio solo strumentalmente “culturale”.

Si potrebbero, volendo, prendere in esame una per una tutte le “stampelle” formali (Meneguzzo) di cui Verna si è servito in questa seconda fase della sua attività (griglie di quadrati, bande orizzontali che ingabbiano altre bande dall’andamento più movimentato, suddivisione della tela rettangolare in bande verticali ed orizzontali regolarmente iterate, suddivisione della tela in rettangoli eguali dal perimetro “a fascia”, quadrati e rettangoli concentrici rispetto al perimetro della tela, poligoni ricavati flettendo il lato del quadrato, rotazione di quadrati, partizioni geometriche di figure elementari con evidenziazione tramite tratteggio del procedimento seguito, semplice incrocio di linee tracciate col compasso a partire dagli angoli della tela ecc.) e ricavarne una sorta di “identikit” progressivo del “limite” di cui abbiamo parlato, cioè della postazione sulla quale Verna ha in questi anni inteso attestarsi per poter essere certo di trarre, in piena libertà, il massimo partito dalle sue ricognizioni-esplorazioni; ma tutto questo nella logica del presente saggio non è importante, così come non è importante precisare quali schemi Verna abbia adottato di,preferenza nei periodi in cui la tensione metalinguistica sempre presente nel suo lavoro si è maggiormente acutizzata quasi a volersi porre in sintonia con i modelli della più serrata sperimentazione semiologica.

E’ importante invece rimarcare come nella ricerca del periodo qui considerato:

Sul piano della continuità operativa
a) non vi sia un programma predeterminato che viene metodicamente inverato.
b) Vi sia invece un rapporto di serialità tra molti lavori nel senso che essi incarnano varianti di una medesima idea e potrebbero quasi dirsi momenti di una stessa opera.
c) Vi sia un rapporto di continuità in senso stretto che lega tra loro un buon numero di opere (o cicli di opere) in quanto le idee sviluppate da alcune di esse sono servite da base di partenza  per altre.
d) Vi sia un rapporto di continuità in senso lato tra tutti i lavori in quanto momenti successivi di una ricerca articolata per problemi comunque insistenti su di una medesima area di riflessione.

Sul piano degli strumenti adottati
e) La geometria non abbia che un ruolo secondario rispetto alla estrinsecazione di tutte le potenzialità del colore-luce e sia soprattutto funzionale all’obiettivo della determinazione dello spazio (attraverso il colore-luce).
f) La geometria venga spesso usata come supporto per la creazione di effetti di ambiguità che non hanno nulla a che vedere con le problematiche di matrice gestaltica tipiche di una certa produzione a cavallo tra gli anni 50 e i 60, ma sono invece verifiche del potere costruttivo del colore.
g) La valenza costruttiva del colore sta sempre indiscernibilmente intesa come relativa sia allo spazio che all’emozione.
h) Ma, mentre le possibilità relative allo spazio risultano a conti fatti catalogabili per temi, quelle relative all’emozione debbono essere sempre commisurate all’opera nella sua globalità. Si configurano, in un certo senso, come “umore” del quadro.
i) Esista anche un rapportarsi, in nessun modo velleitario, dell’operare pittorico alla struttura fisiologica dell’individuo attraverso la misurabilità del gesto e il calcolo della distanza di visione nella sua relazione con la grandezza dell’opera.

Il terzo periodo di Verna (si potrebbe segnarne l’inizio intorno al 1977, anno in cui egli ritiene ormai completata la serie dei cosiddetti “quadri archipittura”) è caratterizzato dall’abbandono del supporto geometrico e dalla solida conquista di una nuova libertà espressiva. (Se il termine non si prestasse a troppi fraintendimenti si potrebbe anche dire “compositiva”). La geometria e il suo potere ordinatore non sono però abbandonati da Verna perché egli non senta più il bisogno di una qualche forma di ordine o peggio perché gli urga dentro la necessità di rinnegare quella metodica progressiva che ha sempre caratterizzato il suo lavoro.

La cosa è molto più semplice: egli ora è in grado di trovare ogni volta il proprio “ordine” senza bisogno di supporti estranei alla pittura. (Un ulteriore passo avanti dunque verso l’imprescindibile). Se si riflette sul fatto che anche nel suoi periodi più strettamente geometrici Verna, essendo il suo interesse comunque rivolto soprattutto al colore, non ha mai saputo sin dall’inizio quale quadro avrebbe fatto ed ha invece sempre e soltanto progettato-intuito nuovi problemi da risolvere “a caldo”, (anche magari con decisioni improvvise “in corso d’opera”), si comprenderà bene come l’attuale fase possa essere ricondotta ad una aumentata capacità di previsione, ad una vera e propria “maturazione” naturalmente da non intendersi in senso psicologico caratteriale, ma come fatto relativo ad una sorta di “competence” linguistica, sia pure interna ad un codice personale (ad un “idioletto estetico” direbbe Eco).

Il risvolto più interessante di tutto questo ci sembra però essere quello relativo alla emozione. Quest’ultima, che Verna in precedenza si era sempre sforzato, anche attraverso la strutturazione spaziale dell’opera, di liberare correttamente, e non certo di “correggere“, acquista ora una nuova importanza; non è più il prodotto finale di un lavoro, la somma di più emozioni relazionate in maniera tale da poter essere osservate e vissute quasi come una lava appena rappresa (da preferirsi pur sempre a qualsiasi sconvolgente eruzione-esplosione), essa ha un ruolo assai più costruttivo, entra nel progetto-problema sin dall’inizio con gli stessi diritti del gesto e del colore di cui in sostanza non è che la controfaccia psicologica.

E’ interessantissimo, direi addirittura innegabilmente gratificante, osservare come negli ultimi quadri di Verna la pennellata (mai virtuosa od eroica, anzi sempre pienamente misurabile anche riguardo al gesto materiale che l’ha prodotta) diventi anche essa struttura portante senza cessare di essere colore, e come, a volte, sia capace di imbrigliare con il suo semplice star lì ed essere se stessa la prepotenza di masse cromatiche progressivamente accumulate che debordano a mo’ di magma improvvisamente illuminato dalla sua stessa incandescenza.

In termini psicoanalitici si potrebbe parlare di un vero e proprio teorema di economia libidica dimostrato nella maniera più brillante e diretta; un teorema la cui enunciazione è stata resa possibile dall’aver Verna compreso attraverso una lenta, ostinata, solitaria verifica su se stesso, come l’idea regolativa di un imprescindibile pittorico possa essere sensatamente inseguita solo rinunciando ad ogni sogno di universalità che non sia tutt’uno con l’accettazione dell’individuale e del personale. Potremmo allora affermare per concludere, che nel caso di

Verna, se il “proprio” della pittura si è fin dagli inizi rivelato e costituito come colore-luce, l’”imprescindibile” ha finito per trasmutarsi attraverso la misura del gesto nell’infinito dell’emozione.

L’“imprescindibile” è il pittore.