1983 – Simonetta LuxL’immagine che comunque si rivela, catalogo personale Galleria Mèta, Bolzano, gennaio 1983

Claudio Verna fa la pittura e dipinge la pittura, identificando la sua verità materiale con la sua virtualità, guidandola e lasciandosi guidare, unendo il principio di illusione al principio di realtà.

Ogni sua proposta ed opera si presenta coerentemente contraddittoria, lucidamente ambigua, suscitando ogni volta il piacere dell’impossibile scoperta della «regola», che – infatti – fonda la pittura nell’esserne negata.
Verna conosce in verità assai magistralmente ciò che conosce della geometria e delle sue convenzioni, della illusione spaziale, della materia pittorica, del colore e della luce: sa perciò bene – come un vero artista contemporaneo – come non realizzare certe cose e come regolarsi con le terribili sorprese che il piacere del metodo e della proiezione mentale talvolta riservano.

Già nel ’68, negli splendidi quadri geometrici che Verna quell’anno esponeva a Roma dopo un lungo periodo di lavoro segreto, Vivaldi vede «quanto fuoco bruci tra le orditure di meccanismi formali così elaborati e impeccabili». In sostanza: come la geometria e l’astrazione – in opere come Tempo presente 2 del ’67 o Ancora nel bianco sempre del ’67 – non fanno di Verna un pittore geometrico, così in Pittura del ’76 la trama pittorica a pennellate vibratili diagonali dentro la tipica incorniciatura monocromatica non ne fa un action-painter: non più di quanto, infine, i recenti cosiddetti Studi per paesaggio non ne facciano un pittore «figurativo». 

Quali sicurezze e feconde contraddizioni hanno guidato Verna nella invenzione continua di situazioni pittoriche e nella sua magica rivelazione di immagine? Direi insieme – il piacere del procedimento, la riflessione – in acta – sulla sua esperienza, la ragione tagliente «lama che scuoia la follia – ne dice Dorazio e la rivolge in verità» – la sfida dell’immaginazione alla memoria, storica o quotidiana.

Come deve essere, per un Moderno Metafisico la verità di ogni opera ha carattere indiziario ed i tratti dell’ambiguità, della contraddizione, del miraggio.

Se il piacere del procedimento non è compiacimento o techne, esso sarà «indiziato» nelle strutture formali che, portandolo, se ne fanno internamente disgregare; la riflessione in acta non si presenta come griglia concettuale che si mostra, ma come proiezione mentale in metamorfosi che nell’opera si da ai sensi e alle associazioni (e dissociazioni) mentali, già attraversata da una globalità di esperienza; la sfida dell’immaginazione alla memoria storica e quotidiana (dell’arte e non) è esente da citazionismo e dalla concomitante impersonalità, ed è invece flusso esistenziale distillato in immagine.

Se – come Verna ha sottolineato nei suoi scritti – la fondazione della sua opera è in questo flusso-percorso nella pittura ed è esaltazione dei valori intrinseci e primari della pittura nella sua materialità sublimata e virtualità materializzata (pigmento e croma, luce e forma s segno e fattura, spazio e miraggio, tempo e oggettualità, progetto e flusso), il compimento è nella resa di questo interno rigore-tensione in immagine, una rete che di volta in volta ha trattenuto – delle forze e pulsioni operanti sull’uomo artista quella dominante: le interne forzando il procedimento, le esterne alienandolo da sé. La materia della pittura (fare, fatto) costituisce sempre l’astrazione in immagine: nelle opere degli anni ’60, le dis-armonie geometrico-matematiche, che servono il croma e la luce, segnalano con la loro sottile deconvenzionalizzazione gli avvenimenti portati dall’artista dentro la materia e dentro il procedimento pittorico: una virtualità dinamica, in una pittura hard-edge metafisicamente spiazzata (Esulta nel rosso, 1968).

In opere degli anni 70, si ha prima la sfida al progetto e alla struttura, come nelle Iterazioni ambigue che impongono una lettura nel tempo: il colore si individua in «immagine – miraggio», con le sue proprietà opposte accostate e attivate (chiaro, freddo, opaco-scuro, caldo, lucido).

Si ha poi una dominante emergente ricorrenza della tematica spaziale, il cui carattere dinamico-virtuale viene portato dalle alterazioni dei segni che lo individuano, e dalle contaminazioni e repulsioni reciproche. Come in Aegizio, nel provocare lo slittamento e torsione di piano su piano, del ben definito nero triangolo rovesciato, lucido sul fondo nero opaco, le sbavature di colore diversamente orientale funzionano da indizio o residuo del procedimento materiale di costituzione della forma (il triangolo rovesciato) e contemporaneamente da agenti della dissoluzione della forma in immagine (miraggio della piramide).

Aegizio è anche forse il primo più evidente quadro ad indicare il filo che lega la sempre astratta invenzione pittorica alla realtà: realtà conosciuta, ricordata, introiettata, pesantemente ma segretamente interferente nel procedimento, che la reinventa e riproietta.

La realtà che sguscia nell’opera è tuttavia sempre miraggio, mentre l’immagine che – ha scritto Verna – «comunque si rivela» (Licini parlava di astrazione «con» immagine) è sempre immagine della pittura e del dipingere, di una azione nel tempo.

Lo sono i quadri a bande orizzontali dipinti dal ’72 al ’76 (A138, etc.) dove le inclinazioni delle pennellate varianti da banda a banda, le linee e le sbavature fuoriuscenti, fanno dello spazio una pulsazione luminosa; lo sono le archipitture, perfetta identità del dipingere e del dipinto, poiché impongono a una azione generalmente fissa come quella del percepire il quadro la necessità di svolgersi nel tempo, come è del procedimento del dipingere. Verna stesso ha magistralmente descritto il procedimento che ha generato le archipitture, dove ha insieme usato ed espulso tutte le regole logiche ed ordini della costruzione spaziale (fissità, simmetria, ordine, gerarchia): offrendo una prima immediata percepibilità razionale e regolare (griglia di quadrati e rettangoli) e poi – nel tempo – irreversibilmente incontrollabile.

Un pittore che ha incorporato nel dipinto corpo e anima della pittura, rendendola in immagini che ne hanno tagliato via in primo luogo, severamente, il tanto attuale accattonaggio storicistico, e poi tutte le convenzioni, fissità, regole, conformismi – che altro potrà dipingere della pittura, che altro limite superare?

Nelle opere dal ’78 ad oggi, nei magistrali pastelli, nei quadri come Studio per paesaggio, Corolla (del 1979), Je ne peins pas avant da voir (1981), Bosco di Sèvres (1982), Verna dipinge bensì ancora (e sempre) la pittura, ma anche il suo finire e il suo non essere.

Ognuna delle stesure di segni e pennellate che interessano il quadro riprendendo ogni volta dall’alto in basso vengono rallentati e fermate: là dove sono lasciati scoperti residui nudi e inerti di graffiti, segni, pennellate, resti inattivi di timbri e toni, là dove insomma la pittura si ferma e costituisce il proprio limite, lì dove muta il flusso elettromagnetico, allora si costituisce la virtualità di immagine. La quale (di bosco, di corallo, di paesaggio?) è altrove, è fissa, è miraggio, «intermittenza» del cuore e della memoria: che sulla tela si rivela come «intermittenza» della pittura.