Colloquio con Verna, Edizioni della Cometa, Collezione del Millennio, Roma, novembre 1982

Giuseppe Appella – Qualche tempo fa hai scritto che «le parole dei pittori sono quasi sempre giustificazioni». Tu sai bene che la teoria, accanto alla pratica, è propria dei periodi nei quali l’artista respinge la condizione artigiana e per liberalizzare il mestiere cerca un ruolo di intellettuale (Leon Battista Alberti insegna, Kandinsky, Klee e Mondrian confermano). È anche chiaro che la teoria è sì una «giustificazione» (razionale, aggiungo) ma perché vuole farsi compendio di linguistica generale. Non è un libro di precetti ma un sistema grammaticale organico. Non credi che analizzando il tuo processo creativo costruisci regole di progettazione? E che la necessità di esprimere in parole la direzione della propria ricerca sia accentuata dalla serialità delle esperienze?

Claudio Verna – Sono pienamente d’accordo con te. Quando scrissi quella frase mi riferivo proprio a quegli artisti che, invece di cercare la consapevolezza critica del territorio e degli strumenti con cui agiscono, esercitando la speculazione nel momento della pratica, si limitano a fare il verso ai critici veri parlando a posteriori del loro lavoro per spiegarlo, appunto per giustificarlo.
E del resto io ho scritto molto, fin troppo, specie a cavallo degli anni ’70, quando genericamente la pittura veniva considerata antiquariato. L’ho fatto per identificare le ragioni che mi spingevano a credere nella pittura. Quella consapevolezza mi ha consentito di ipotizzare teoricamente il mio lavoro, permettendone una lettura forse meno equivoca, e di aprirlo a tutte le possibilità inerenti alla mia ricerca. Ma senza dimenticare mai che quando si lavora entrano in gioco anche altre componenti: l’irrazionale e l’inconscio, la memoria e la storia, la stupidità e la follia. E che l’arte continuerà sempre a smentire ogni sua definizione.

G.A. – I discorsi sullo spazio, il colore, la geometria, sono un vincolo della trattatistica antica e moderna sulle arti figurative. Diversi sono stati i tentativi, dopo le esperienze degli anni Venti e Trenta poggiate su basi più ideologiche che filosofiche e viceversa, di ridurre determinati settori dell’astrattismo ad una estetica tipica di civiltà e classi ben precise, facendo così di ogni teoria una bandiera.
Come si forma in te, che io vedo ancora esempio di costante sperimentazione, questa tendenza, cioè come verifichi nell’attualità un discorso così antico?

C.V. – Secondo me le avanguardie storiche, e quindi anche l’astrattismo, hanno vinto la loro scommessa con la storia perché hanno allargato i confini delle nostre coscienze, ci hanno permesso di vedere quello che prima non immaginavamo, insomma ci hanno trasformato in sintonia con il nostro tempo. Ma l’arte, per esistere, mette continuamente in discussione i codici che l’hanno preceduta: e questo, naturalmente, vale oggi come ieri. Per cui, se trovo aberrante l’opinione di chi ritiene che la storia abbia smentito le avanguardie, ritengo patetico rifarsi passivamente a quei valori in nome di una coerenza che sa di dogma e di paura del nuovo.
Oggi tutti noi, artisti e no, abbiamo ereditato un patrimonio di idee, teorie e opere con cui dobbiamo fare i conti: ma questo significa, un po’ ambiziosamente, riscrivere continuamente la storia dell’arte, rimuovere i tabù, e azzardare a nostra volta. Recentemente ho intitolato un mio dipinto «Ultimo quadro astratto». Nel farlo, non rinnegavo il mio passato di pittore astratto né avvertivo il baratro del vuoto. Prendevo molto modestamente coscienza della nuova realtà e del mio dover affrontare i problemi di oggi senza alibi fornitimi dai padri putativi sui quali pure mi sono formato e che ancora, in parte, mi nutrono.
Finito il gioco al massacro delle avanguardie, quello sponsorizzato dalla moda, è assurdo e inutile riproporlo sotto nuove vesti. Non è crollato il mondo, non c’è stato azzeramento di valori come cinicamente qualcuno sostiene: la qualità, i valori (e quindi il giudizio) esistono come sempre, ma su piani diversi e più segreti. Basta guardarsi attorno.

G.A. – La libertà, ma non lo scopro certo io, è una conquista, che va vigilata e difesa continuamente. E il lavoro obbedisce a leggi e regole che nascono al suo interno. L’opera, almeno per me, non è mai la didascalia di un’idea, ma qualcosa che esiste solo nel momento della sua realizzazione.

C.V. – Rohtko ha scritto che un quadro è una rivelazione miracolosa, altri, più modestamente, hanno parlato di mistero o di avventura; ed è vero, ma certo è un’avventura faticosamente preparata e lungamente perseguita. Le poetiche c’entrano fino a un certo punto.

G.A. – Riconosci nella tua opera un impegno metodologico e razionale di porre le basi ad un linguaggio universalmente valido? Non credi che sia proprio il rigore mentale e la coerenza nella ricerca a vitalizzare l’esperienza e a creare la fortuna di questo lavoro?

C.V. – Io cerco di fare del mio meglio. Il rigore mentale e la coerenza non sono attributi del lavoro, ma la sua necessità.

G.A. – Da alcuni fogli osservati nel tuo studio mi sembra che il disegno sia un’operazione che tu compi in attesa di un’idea che si farà immagine, che si modificherà, svilupperà, crescerà nell’analisi di luce, colore, forma.

C.V. – Io disegno moltissimo, ossessivamente, ma non conservo niente. Sono il momento più segreto del mio lavoro, la decifrazione dei miei fantasmi, quasi un movimento automatico della mano. Non faccio mai un quadro sulla base di un disegno, ma senza disegnare non potrei dipingere.

G.A. – La continuità del tuo lavoro è pari alla tua maturazione. Ogni schema è saltato, la pittura si è fatta vero e proprio organismo dalla crescita lenta ma regolare. Aguzzi le tue conoscenze e le tue esperienze alla luce della pittura variando temi e portandoli sempre alle estreme conseguenze?

C.V. – Come dicevo prima, ogni quadro nasce dal quadro precedente, secondo una logica tutta interna al lavoro. Il fatto è che le esperienze nuove non si aggiungono semplicemente alle precedenti ma entrano in dialettica con quelle, generando una specie di reazione a catena.
Nel mio lavoro ci sono veri e propri movimenti ciclici, in cui ogni elemento viene rimesso continuamente in gioco. A volte mi è capitato di rielaborare un tema sviluppato anni prima e di accorgermene solo a cose fatte: il risultato è curioso, perché formalmente è diventato una cosa molto diversa, ma al fondo ritrovo motivazioni molto simili.
Forse quello che mi separa di più dal passato è che oggi avverto sempre più la precarietà di qualsiasi scelta o idea di partenza ( soprattutto ideologica).

G.A. – Ritmi, tonalità pure, stesure uniformi, sagomature, bordature si sono modificati nel tuo lavoro ma persiste la «staticità monumentale» e il «silenzio» (di cui parlava Marisa Volpi nel 1968), una vitalità e una tensione emozionale sottilissima.

C.V. – Ho già scritto altrove che quando mi pongo di fronte alla tela non ho mai il complesso della pagina bianca, ma la sensazione di avventurarmi in qualcosa che mi promette, ma non sempre mantiene, piacere. Forse per questo, cerco di non approfittarne, ma elaboro il quadro con lentezza, pronto a seguire gli inviti e le suggestioni di quanto sì va organizzando sotto i miei occhi. Il quadro così non nasce con il proposito di colpire o sorprendere lo spettatore, ma al contrario di farsi avvicinare lentamente ed agire con il massimo dell’efficacia man mano che aumenta il tempo della sua lettura.

G.A. – Credo che tu abbia accentuato la riflessione sugli strumenti utilizzati dall’uomo per coordinare il linguaggio dell’occhio e sulle categorie della tradizione pittorica con relativi nessi storico-linguistici, mettendoli a fuoco uno atta volta con un procedimento ostinato ma illuminante.

C.V. – La riflessione, necessaria comunque, mi è stata imposta dalle circostanze. Una quindicina di anni fa, la pittura venne messa in quarantena come se fosse una categoria dello spirito e non un mezzo, un semplice mezzo per fare arte.
Io mi sono sempre definito pittore perché credo di potermi esprimere soltanto con il colore: e non esiste mezzo più duttile e ricco del colore a olio su tela per chi abbia fatto la mia scelta. Questo non esclude che rispetti e stimi anche artisti che operano con mezzi diversi.
Io sono convinto che sulla pittura incomba un peso immenso, quello della tradizione, che spaventa; che gravino su di essa equivoci e condizionamenti che altre strade sembrano evitare. Per cui, per usare un mezzo tanto affascinante ma così pericoloso, è necessario recuperarne tutte le potenzialità con una indagine accanita, profonda, teorica insomma dei suoi elementi costitutivi, della sua struttura, della sua storia.

G.A. – Il quadro come fonte di emozioni e di esperienza, il quadro come oggetto di valore e di consumo. Riesci a metterli insieme?

C.V.- Demonizzare il mercato è stupido e soprattutto inutile, anche perché alla mercificazione non si sfugge non vendendo (la merce rimane merce anche in magazzino). Piuttosto la necessità che sempre il potere ha della cultura e dell’arte è lo spazio e l’opportunità che gli artisti devono sfruttare per rivendicare la loro autonomia; solo a queste condizioni potranno avere ancora il diritto di credere nell’efficacia del proprio lavoro.

G.A. – In molti di questi pastelli noto quasi l’immersione in una pittura dai forti stupori con richiami di riflessione «naturalistica». Sono solo suggerimenti? Oppure c’è un recupero della pittura di paesaggio per allargare la dimensione del vedere, per accentuare l’operazione pittorica, la ricerca sulla sonorità del colore, sull’uso dei fondi intensi, dei pigmenti che variano i rapporti tra i colori?…

C.V. – La natura, come diceva Nietsche, siamo noi. Cosa sia invece il naturalismo, è meno chiaro: forse è una convenzione, un’idea dell’approccio con la natura che però sembra tagliare fuori l’uomo dalla stessa natura per farne una specie di interlocutore, sia pure privilegiato. E quasi sempre si guarda al paesaggio come al tramite più «logico» per recuperare un legame, perduto con l’avvento della civiltà industriale. Il paesaggio diventa così, spesso, il luogo deputato della polemica contro il mondo tecnologico, o della nostalgia per la madre divenuta matrigna.
Ma ci sono anche altri modi di guardare la natura, altrettanto creativi. Penso a Matisse, a Klee, a Gorky, a Twombly: l’immagine non è più descritta passivamente con animo esclusivamente contemplativo, ma filtrata e rielaborata per proporre una nuova realtà, e quindi ancora natura.
Se la natura siamo noi, viverla non può voler dire solo rappresentarla, metterla in scena, ma cercare di intuirne le leggi, il senso, il mistero. Che sia un’utopia è vero come è un’utopia l’arte, ma vissuta dall’interno, in sintonia con il suo respiro. È quello che cerco di fare anch’io, per quanto mi riesce.