In “Gala international” n. 93, Milano, ottobre 1979

Miklos N. Varga – Prendo spunto dalla tua recente monografia (che è anche un’autobiografia artistica) per farti quelle domande che di solito costituiscono la “trama critica” di una recensione. Per esempio, fra i tuoi lavori del biennio 1959-60 e quelli del 1967 non vi sono relazioni, neppure nella fase intermedia, in quanto la gestualità dei primi è ancora emotivamente implicata nell’Informale, mentre dal 1967 in avanti la tua posizione “neoastrattista” riflette un ordine mentale contiguo all’immagine del quadro inteso come “quadro dell’immagine”. Penso a Malevitch, Ad Reinhardt, Barnett Newman. Come hai vissuto quel periodo, indipendentemente dalle mie e altrui opinioni critiche?

Claudio Verna – È forse la prima volta che mi viene chiesto come ho vissuto i primi anni Sessanta, anni che io considero fondamentali non solo per me. Si usciva dal clima dell’informale e il rischio era sempre lo stesso: lasciare un ‘avanguardia per tuffarsi subito in un’altra. Il problema, dunque, era di uscire da questo meccanismo, per sfuggire in qualche modo alla circolarità di gran parte delle esperienze dell’arte contemporanea. Come? Indagando sulle ragioni del proprio lavoro, rivisitando la storia dell’arte, studiando senza falsi moralismi le contraddizioni dell’arte moderna. Personalmente scelsi la via più drastica, lavorando moltissimo e rifiutando di esporre le mie prove. Paradossalmente, gli artisti che mi interessavano di più non erano i pittori, ma quanti mettevano in discussione proprio la pittura. Furono dunque anni di ricerca e di analisi in cui mi convinsi della necessità di liberare la pittura dai possibili equivoci e condizionamenti: un ripartire insomma dagli elementi primari per riappropriarmi di tutte le sue potenzialità. Quando nel ’67 tornai ad esporre, non furono certo le polemiche sulla “morte della pittura” ad impensierirmi.

M.N.V. – Nel campo della geometria “primaria” hai condotto diverse ricerche, fino a rielaborare una specie di “minimalismo” rapportato allo spazio del quadro, ma sempre del “quadro dentro il quadro” come è stato rilevato. Un’operazione che passa dalla forma-colore al colore-luce contestuale alla forma. Quindi, secondo te, in pittura l'”emozione corregge la regola” ancora…

C.V. – Direi che la regola è necessaria per poter liberare l’emozione. Ogni artista compie una serie più o meno lunga di azioni consapevoli che lo portano alla soglia della creatività. Di quelle azioni può parlare, poi entrano in gioco fattori troppo diversi per averne un dominio pieno. Comunque, io considero le mie ricerche “minimalistiche” come propedeutiche al lavoro successivo, che in qualche modo le legittima quando si apre a nuovi sviluppi.

M.N.V. – Hai ragione quando sostieni la necessità di ovviare alla “letteratura dell’opera” per rappresentare, semmai, la “critica del dipingere” (questa è la mia opinione) attraverso il linguaggio della pittura. Infatti non ho mai creduto nelle formule tipo “nuova pittura” o “pittura-pittura” poiché costituiscono una specie di millantato credito di certa critica feriale, astorica, perfettamente elusiva. Qual è il tuo pensiero “autocritico” in merito?

C.V. – Che la situazione prima del ’68 fosse sclerotica, è stato ampiamente dimostrato dalla contestazione che è seguita. Ma poi, come al solito, si è ricaduti nelle formule. Ci si illude sempre, evidentemente, che le novità in sé siano la realtà più autentica, lasciando poco spazio all’approfondimento. Per cui, per esempio, quando tre o quattro pittori si ritrovarono nella stessa area di ricerca, furono immediatamente etichettati come “nuovi pittori”, dando per definitive posizioni momentanee, teorizzando a sproposito e soprattutto tralasciando di vedere il loro lavoro in prospettiva. Sono stati accostati artisti che avevano problemi addirittura opposti ma che “esteticamente” sembravano simili; spesso, poi, gli artisti si sono prestati a giochi e compromessi poco dignitosi. Io stesso ammetto di aver accettato di esporre in troppe mostre, avallando così posizioni critiche distorte. Ma non c’erano alternative e certe accuse che sono state fatte dopo sono viziate di moralismo o addirittura da malafede. D’altra parte, quando ho scritto io stesso, ho avuto la sensazione di combattere una lotta impari. E ancora oggi mi chiedo quale sia la strada da seguire se non ci si vuole poi ridurre a lamentazioni più o meno Ipocrite quando certi giochi si fanno sulla nostra pelle.

M.N.V. – Come definiresti i tuoi anni 70, attraverso i “passaggi” che hanno caratterizzato i tuoi lavori fino alle “archipitture”?

C.V. – A questa domanda vorrei rispondere entrando un po’ nel merito delle mie motivazioni. Io mi definisco pittore nel momento stesso in cui affermo che il colore è il mezzo con cui voglio esprimermi, e che la pittura è la maniera più giusta e più ricca di servirmene.
È attraverso il colore che decifro i rapporti tra le immagini e quindi le immagini stesse; è attraverso il colore che lo spazio assume una identità, una virtualità, uno spessore; è sempre attraverso il colore che mi àncoro alla realtà, quando la fantasia proietta, attraverso il quadro, immagini e stimoli per l’occhio e la mente.
A questo punto, il mio compito principale è quello di giungere al massimo grado di libertà, alla mia libertà di artista. Per questo credo alla pittura come disciplina, esercizio della speculazione nel momento della prassi, dialettica tra percezione e pensiero, esperienza in continuo movimento. Una conseguenza di queste mie posizioni è che la ricerca non rispetta passaggi formalmente ineccepibili. Anzi, chi conosce un po’ il mio lavoro, sa che esso si svolge attorno a tre o quattro temi che rielaboro continuamente: in pratica guardo ad un solo obiettivo da diversi punti di vista e con implicazioni diverse. Ora, da un paio d’anni, nei miei quadri è rintracciabile una nuova gestualità che solo superficialmente è di origine informale. La struttura, la cultura, la sapienza tecnica sono come riassorbite nel lavoro e non più mostrate come giustificazioni o alibi. Ma la pittura per me, oltre che coscienza e conoscenza, è anche gioco; oltre che impegno totale, anche piacere o almeno ricerca di piacere.

M.N.V. – Tu sei un convinto assertore della “vita della pittura”, forse perché continui a pensare che la pittura sia vita, cioè omaggio alla vita dell’arte, etc. Insomma, pur continuando così non credi che sarebbe opportuno rettificare qualche “punteria sociale” nel motore del nostro attuale “sistema dell’arte”?

C.V. – A questa domanda ritengo di avere in parte già risposto indirettamente. Qualche “punteria sociale”, come tu le chiami, va rettificata, ma non mi sento di “demonizzare” questo o quel critico, come sembra divenuto di moda, né di piangere lacrime di coccodrillo ad ogni Biennale. Sono i rapporti tra le varie componenti del sistema che vanno modificati: i rapporti tra il mercato e le istituzioni pubbliche, tra i critici e gli artisti, e tra gli artisti stessi. E soprattutto ciascuno deve prendersi le proprie responsabilità. La difesa della libertà dell’arte non può passare attraverso corporazioni più o meno mascherate, siano quelle degli artisti, dei critici o dei mercanti. Invece ho timore di assistere ad un balletto poco divertente, con troppi riferimenti a divise e scuderie.
lo non sono né un eroe né un diplomatico di carriera: ma almeno gli amici voglio scegliermeli da solo.