1979 - Maurizio FagioloClaudio Verna, Giancarlo Politi Editore, Milano, 1979

1. IL QUADRO E IL SUO DOPPIO

Il primo momento della ricerca (e l’ultimo, perché ognuna di queste proposte vale per tutto il percorso di Verna) è quanto mai imprevedibile. Il pittore dichiara prima di tutto di non conoscere il fine della ricerca, di non aver già catturato l’impalpabile essenza del Quadro: sa di non sapere. A la recherche… allora (con tutto il carico di Memoria che questa operazione sottintende). Sapere che cosa è il colore, che cosa è lo spazio, che cosa è la storia della pittura, sapere altri fini e forse anche i mezzi, ignorare semplicemente come si può cominciare da capo. Dire: Un quadro è un quadro (come, secondo Gertrude, “una rosa è una rosa”), forse questa è la partenza giusta.

Tutto il gioco (il doppio gioco?) di Verna diventa allora implacabile ed esibito ogni volta sotto i nostri occhi: il pittore recita il momento in cui non trova, si presenta all’occhio quando il suo occhio non ha ancora messo a fuoco l’immagine. E quell’immagine (che, non a caso, è il quadro stesso), sta nascendo e insieme sta scomparendo come in una glissata dissolvenza, si fa sotto i nostri occhi mentre (destino del catturatore d’immagini) inavvertitamente scompare.

I quadri che in questo capitolo si allineano segnano la complicata e metaforica ricerca del Campo Ottico. All’inizio fu il modulo: ricerca anche a suo modo datata (siamo in quegli anni governati da strane siglette monche) ma indubbiamente seria. Poi la definizione slittante d’un riquadro dipinto all’interno d’un riquadro dipinto, con il colore che si brucia nello sforzo di delimitare un possibile Limite.

Molta aggettivazione usata in questo paragrafo mi riporta all’Enigma, al mistero della ricerca, al senso di sorpresa nello scoprire che si può dire una cosa semplicemente e spogliamente dicendo quella cosa, che il dire è il fare è semplicemente il detto fatto di un altro fare. L’inquietante doppio tra LES MOTS e LES IMAGES che ha inquietato per mezzo secolo Magritte. Tanto per dire che il discorso della pittura può accomunare un teorico di bande e campi e il pratico di cieli e notturni. Tanto per sottolineare che, sempre e comunque, all’inizio e alla fine ogni operazione coinvolge il Linguaggio.

Questa evocazione del maestro del Doppio sembra farci entrare più facilmente in un mondo accortamente sdoppiato. Pittura ma pensata; quadro ma trovato ogni volta; esattezza clinica dell’immagine, ma processo tormentoso. Per accorgersi ogni volta che il quadro non c’è ma si vede.

Il quadro può anche essere fatto di quadri. Il colore può anche evidenziarsi dal contrasto non con altri colorì ma dal contrasto fra il se stesso freddo e, per esempio, il se stesso opaco. La qualità può anche nascere dal confronto tra le diverse quantità: proprio come il quadro nasce dal problema di cercare il verosimile campo ottico di un quadro.

2. LO SPAZIO E LA SUA IDENTITÀ

Da quando sappiamo che non esistono due cose uguali, e che non solo una copia è diversa dall’originale, ma la trascrizione del Don Chisciotte può essere un’opera autonoma più rivoluzionaria del Don Chisciotte, la relatività si è allargata. Borges ha dilatato Einstein. Il Pittore ha “trovato” il Quadro: ora deve “orientarlo”: deve dare un senso globale a quello spazio che conserva il calore d’una lunga ricerca e il gelido impatto di un Readymade. Quello spazio ritrovato è anche un prelievo da un quaderno di geometria, l’infantile recherche d’una lavagna misteriosa come quelle del Metafisico, il tratteggio del non-detto che si oppone alla certezza del fatto.

In questo capitolo è De Chirico che voglio evocare.

Verna ancora una volta da una provvisoria conclusione al vuoto, incornicia il silenzio. E lo fa con il solito sbavarsi del colore-immagine, ma anche con i cerchi che indicano una centralità geometrica, anche con il segno che si segmenta nel positivo/negativo. Certo, un punto di riferimento (e perfino testuale) può essere Paolini e il suo Oggetto Concetto. Ma De Chirico vigila sempre, quando il problema è quello di identificare la solidità d’un pensiero, quando la soluzione è quella di non dare soluzioni ma di metterci (non certo pilatescamente) di fronte all’interrogativo o all’enunciazione del problema.

Lo spazio è così, e così si può ottenere: dice Verna. Ma poi inevitabilmente quella lavagna, appena incrinata da un gesso didattico, diventerà uno schermo. Un qualcosa perennemente modificato dal desiderio di ognuno che la guarda, e perfino dall’artista che sarà sempre il più inquieto spettatore della sua opera. Mistero dello spazio (l’impresa di quadrettare è come quella preistorica di dividere il ciclo o di arare la terra) evidenziato con la semplicità dello schema mentale. Lo splendore “metafisico” del problema nasce anche dall’assoluto rigore (e silenzio) della sua messinscena.

3. IL TEMPO E LA SUA RELATIVITÀ’

Fare pittura significa non soltanto tracciare l’entità verosimile dello spazio e la probabile dimensione in cui imprigionarlo, ma anche sensibilizzare la mano in una cattura del tempo di visione.

La mano si muove, e ogni tratteggio è diverso dall’altro in quanto varia, in questo momento dell’analisi, il tempo.

Verna sceglie per comodità didattica una impaginazione a bande: basterà dare ad ognuna un diverso trattamento pittorico per avere contemporaneamente nello spazio della Pittura il tempo manuale del Pittore. Azione e reazione, impassibilità e sentimento, scienza e coscienza, progetto e sesualità.

Tracciare bande come su un quaderno di scuola, scrivere pittura come allineare le aste d’un discorso che volontariamente si rifà alle origini di quando non c’era neanche il metodo di apprendimento globale. Lunghe zone di colore, intese come bande sintetiche d’un elettrocardiogramma. L’oggettività d’un discorso soggettivo: la mise-en~page rigorosa del flettersi continuo delle raisons-dù-coeur.

La mano segna e disegna, lo strumento a cinque dita diventa la continuazione dello strumento bulbo-retina: ma sempre con un aggancio netto a quell’altro strumento, il terminale cerebrale di questo micro-computer. L’azione, insomma, diventa il prolungamento del vedere ma prima di tutto c’è il pensare. E’ cosa mentale, questa pittura: e non appena si condensa nell’oggetto fa acquistare una vita più piena al concetto.

E poi il “discorso sulla ragione”: che si presenta rinnovato a ogni Pittura. Esiste la ragione soltanto quando sia accostata all’irrazionale (il rigore del quadro, la provvisorietà del gesto: l’uguale e il diverso), proprio come il senso della luce è dato dall’ombra e il valore dell’infinito è comunicato dalla briciola di finito. Qui voglio evocare Giorgio Morandi.

“Eppur si muove” si potrebbe dire per molte altre ricerche. Viene tracciato uno spazio e subito dopo un altro: due modelli di perfettibilità confrontati a un terzo spazio (spesso visualizzato con la linea segmentata) inteso come modello d’una idea di perfezione. E siccome tutto questo non può esistere (perché esiste soltanto la certezza della ricerca) tutte queste alternative sono chiaramente esibite sullo schermo dei quadro.

Che non è davvero “work in progress” (come si dice per tutte quelle opere sbagliate che non conoscono il cristallo dell’opera realizzata), ma è una istantanea del tempo: quello che è servito a fare il quadro, quello che si impiega a decifrarlo, quello che indica che ogni quadro viene da lontano. Perché “tempo” significa operazione ma anche storia: e questa slittante alternativa tra l’immagine cercata e quelle trovate è anche una sapiente (anche se inconscia) analisi d’un bagaglio sterminato di immagini collettive.

Voglio dire: Mondrian/Van Doesburg, oppure Albers/Newman, oppure Pollock/Rothko. Voglio dire, la dialettica tra l’essere e l’esistere, il gesto e la stasi, il si e no della inevitabile Imperfezione.

4. OVVERO, ARCHIPITTURA

Una ipotesi di “segni e non sogni?, di “geometrìa ma con sentimento” di “astratto con figure”: qui evoco Osvaldo Licini. Tutta la pittura recente di Verna è una inesausta ricerca sulla ricerca, ma in un nuovo tempo. Quella antica analisi al calor-freddo viene per così dire vitalizzata da un occhio che vede altro e da una mente che ha conosciuto altro. Ovvio, che lo strumento a cinque dita dipinga in modo altro.

Fare pittura come si costruisce un progetto (e non come si realizza una casa: equivoco di tanta ricerca “astratta”). Oggi si dice: “Sant’Elia era bravo, peccato che non realizzasse i suoi edifici” oppure, “Belli i progetti di Balla per Compenetrazioni iridescenti, peccato che non li trasferisce a olio su tela”. Anche Verna ha capito che una delle poche definizioni eterne per questa attività umana che si chiama “arte” può essere soltanto “progetto mentale”.

Si può realizzare quell’idea ma sarà sempre “un’archipittura” come diceva il saggio Licini. Sara sempre una laboriosa chimera: assurda come è inconcepibile un millepiedi, ma come questo dannatamente esistente.

E allora, si spiega la dialettica analisi di Verna. Possiamo definirlo “concettuale” a patto di chiarire che la pittura è sempre stata tale, e soltanto chi non conosca Piero o Raffaello o i Maestri di Altamira può ritenere uria novità questo discorso azzardatamente teso tra la mente e il braccio, tra l’occhio e la memoria. Quando un soggetto riesce a elaborare una serie di concetti fino a farli «precipitare» (come si dice in termine chimico) in un oggetto…

Tutta qui l’attività di Verna, un Pittore tra quelli che possono scartare per sempre la presenza falsamente soterica del Critico.