1975 - Giovanna Dalla ChiesaDifficoltà della pittura, catalogo personale Galleria Spagnoli, Firenze, 1975

Verna non pensa che fare il quadro sia qualcosa di diverso dal «fare la percezione»; si pone in questo senso nella grande linea pittorica che partendo da Seurat, Matisse, Mondrian, Malevic, arriva fino agli italiani Balla, Fontana e Dorazio. «Quale pittura?» si chiede con calore Verna: «Il problema è ormai di sapere di quale pittura si parla. Perché il rischio più grosso è di ritenerla una specie di ritorno all’ordine o, nel migliore dei casi, una lunga eco della tradizione».

Ci troviamo oggi, tuttavia, nella condizione storica che Rosenberg ha definito come «tradizione del nuovo». Tutto ciò che è stato fatto in pittura-e-non (vedi il caso di Duchamp che Verna giudica come una pietra miliare nel nostro secolo) fa ormai parte della tradizione. Ma tradizione vuol dire anche cultura e a questo Verna non si sente di rinunciare. Cultura è già scelta, analisi critica delle proposte, verifica della loro portata, capacità di sperimentarne nuovamente il valore in soluzioni elaborate individualmente.

Verna, dunque, è contrario alle troppo facili denominazioni con cui la critica ha circoscritto il fenomeno della pittura benché, almeno in questo caso, le etichette siano servite a convogliare l’attenzione su un problema di interesse centrale. Dire che il fenomeno sia «nuovo» è fare un affronto a quanti, come Verna – nel frastuono delle tendenze orientatesi su medium diversi dalla pittura o su espressioni extraartistiche dal ’60 in poi – hanno continuato faticosamente a dipingere, pagando caro il lusso di amare la pittura.

Meglio dunque sgombrare il campo dall’equivoco se la neo-pittura sia veramente nuova o no, se non si vuol figurare da miopi per tutto il tempo in cui essa ha circolato tra le righe, e parlare allora di «continuità della pittura» come propone Vivaldi, continuando a interrogarsi «dove» sia pittura; o, come fa Verna, unire la riflessione concettuale sull’arte del dipingere (il «discours sur la methode» cui accenna Fagiolo) alla pratica della pittura cercando il momento felice in cui i due punti convergono per dare la messa a fuoco di una problematica, presente in ogni fase del processo.

Contro gli schematismi che sulle basi incerte dell’informazione distorcono la conoscenza, il lentissimo processo di analisi cui la pittura di Verna sottopone i dati di quella precedente, costringe anche la critica ad una revisione dei propri strumenti, ad una maggiore attenzione al filo logico che guida la speculazione pittorica. Nonostante la lacerazione profonda che il passaggio da un’economia artigianale ad una industriale ha causato nel nostro sistema culturale, il sistema dell’arte ha continuato a sopravvivere grazie all’elaborazione di proprie leggi autonome, anche quando esse non hanno trovato una concreta applicazione all’esterno. L’arte come sistema di tecniche tradizionali ha cessato di avere la propria funzione di asse, ma si è creata una circolazione di idee sull’arte che opera sull’«orizzontale» e rende ancora accessibile il canale.

Si tratta dunque, anche per la pittura, di riprendere il proprio cammino sulla base dei dati di cui quasi un secolo di ricerche l’ha dotata. La posizione di Verna non è in sostanza quella del rivoluzionario (e non lo potrebbe a meno di essere antistorica) ma quella del riformatore illuminato; ma rifondare con pazienza il codice del linguaggio equivale, di fatto, ad una rivoluzione.

Ancor prima di porsi il problema dell’arte come disciplina, Verna ha fatto della propria disciplina un’arte. Ma sta avendo ragione: è riuscito in questi anni a fare della pittura uno strumento duttile, avendo la coscienza esemplare che la misura della sua validità attualmente non concerne la capacità di realizzare astratti programmi, ma di inverare la quantità di impegno presente in ogni atto, per realizzarne al tempo stesso la giustificazione mentale e il richiamo sensibile.

Chiamerei quello di Verna un «sentimento della pittura» unito a una profonda conoscenza della pratica pittorica, col proposito di ricreare il linguaggio dell’arte a quel punto di confluenza che da enunciati astratti crea una nuova sfera d’azione, un nuovo dominio della pittura.

 

Linguaggio pittorico e pittura come disciplina

II primo polo che s’incontra in un discorso sulla pittura è la superficie. Per dipingere tradizionalmente si devono fare i conti con la superficie, il che significa trovare le regole cheordinano il sistema del vedere, l’altro problema della pittura. Tutto il ‘900 corrisponde al tentativo di sostituire al vecchio sistema prospettino una nuova logica visiva. Creare un nuovo linguaggio è tuttavia possibile, quanto non esiste impervietà nei canali di comunicazione, quando la società è in grado di accogliere il suo significato, poiché non c’è differenza tra ciò che la società è e l’immagine che se ne da.

In questo caso si può dire che l’immagine «rappresenta» la realtà, ossia è una realtà, anche quando non rientra più in un tipo di rappresentazione figurativa.

I canali di comunicazione nel nostro secolo sono stati interrotti. Si è prodotta così quella spaccatura tra il fare l’arte e il fare il discorso sull’arte che è sua caratteristica. Il linguaggio è ritornato su se stesso configurandosi come un sistema a parte nella realtà.

L’esigenza che avvertono Verna e i pittori della sua generazione è quella di ripartire dal grado zero muovendosi all’interno di uno «specifico». Si prendono in esame gli elementari linea-colore-superficie, per sperimentare la loro relazione interna, Dall’altra parte si analizzano i concetti, come nel caso della prospettiva che naturalmente non avendo più una funzione, resta sullo sfondo come immagine antica del «disegno». Come emerge dalle dichiarazioni degli artisti, si rifiuta «l’ideologia» non perché la si voglia distruggere, ma per tentare di contrapporre ad un’ideologia di tipo compiuto, autoritaria e coercitiva, un modo di procedere mentale di pari passo con quanto si va facendo.

Verna è convinto che il problema conoscitivo che l’arte sempre presuppone non si svolge solo sul filo del raziocinio, ma anche su quello dell’esperienza; ecco perché la sua pittura unisce il mentale al sensibile. La prospettiva sognata in alcuni quadri si muta in disegno elementare che fornisce l’ordinamento della superficie. Tuttavia essa non riesce ad essere «una modalità percettiva dello spazio» – come ha già notato Tomassoni – senza il colore che «funge da fenomenizzatore dell’immagine». Il problema di Verna potrebbe essere sintetizzato così: fare dell’idea un’esperienza, procedendo secondo il metodo riduttivo. La sua sensorietà è di tipo astratto, si presenta cioè allo stato «puro».

Non è mai priva di un orientamento cosciente ed è dunque l’espressione piena di ciò che Jung chiama «l’atteggiamento estetico sensoriale», riconoscendo il suo manifestarsi come «percezione differenziata»: il punto centrale del lavoro di Verna. Chi come lui si pone il problema del linguaggio sa che non si può fare differenza tra arte e pittura. Verna lavora nel proprio ambito cercando di rivalutare al massimo gli elementi costitutivi pur procedendo col minimo dei mezzi; non crede che si possa istituzionalizzare il linguaggio senza un lavoro svolto singolarmente. E’ Il problema della libertà dell’artista cui più volte ha accennato. Per ciò che lo riguarda supera il divario tra prassi e teoria attraverso la piena identificazione di procedimento mentale con disciplina pittorica, o se si vuole fare riferimento allo strutturalismo linguistico, Verna non procede alla scomposizione meccanica dell’unità più complessa, ma ne individua «l’unità pertinente».