1972 - Luigi LambertiniClaudio Verna, catalogo personale Galleria Peccolo, Livorno, febbraio 1972

Un rigore ed una continua decantazione che si sono sviluppati attraverso il tempo con coerente modulazione di motivi, che hanno avuto sempre come base un filtro mentale ed una distaccata ironia, sono gli elementi caratteristici dell’opera di Claudio Verna. Va subito precisato che si è trattato e si tratta di una ironia dalla dimensione del tutto particolare poiché se con essa il pittore da un lato, con la freddezza dei calcolo, è venuto a negare quanto via via era proposto sul piano di una indagine e di una speculazione logica, d’altro canto ha compiuto l’operazione inversa senza cadere in alcun modo in contraddizione. Il processo mentale seguito – ed i risultati ne sono probante manifestazione – sì è esplicato in pratica attraverso una dialettica concettuale che ha esaltato determinate certezze o valori, accettandoli proprio con l’averli posti in discussione; da ciò è scaturita una verifica nel senso più ampio dei termine e l’indagine di fondo si è sviluppata direttamente in una ricerca e in una riprova di valori.

Se si prendono in esame le opere più recenti e si confrontano con i dipinti presentati da Verna alla scorsa Biennale di Venezia, questa argomentazione troverà più di una conferma. Esisteva in quei quadri una sottile ambiguità di fondo, una frizione ottenuta con un rapporto dialettico che, arrivato a quella che poteva essere la conclusione del suo processo (come tale era possibile accettarlo quale proposta di sintesi) automaticamente si rinnovava proprio per la reiterata proposizione degli elementi che fino ad allora parevano certi o accertati, in questa serie di opere – il concetto seriale in Verna ha un valore fondamentale – l’individuazione di vuoti e di pieni, di spazi – colore che metamorficamente subivano tracce di altri colori in un gioco di geometrie, introduceva in una dimensione cromatica che trascendeva i limiti della tela per divenire una dimensione psicologicamente inglobante.

In quest’ultima – come ebbi a scrivere allora – un rigore calvinista, che determinava e che veniva determinato dalla essenzialità compositiva, – il discorso infatti era reversibile – se era il prodotto di un processo conoscitivo, era anche la risultante ultima di una decantazione critica nel senso più ampio. Si aveva insomma, in una ricerca dì esattezza che calibrava definite situazioni di spazi e colori, una attiva e contemporanea partecipazione proposta all’osservatore delle opere; questi infatti era posto in condizione di dover valutare ed indagare quei valori che, nell’esser messi in discussione, venivano indirettamente esaltati.

Nella stagione più recente Verna dalla ambiguità dichiarata del colore-forma e della luce che quale colore diveniva immagine è passato ad una dialettica ancor più essenziale. Quanto avveniva con il contrasto delle forme e dei colori, ora che le superfici dei quadri sono praticamente di un unico colore (prevale in linea di massima un bianco corposo e denso) avviene con sottili separazioni, con semirette che imprevedibilmente interrompono la superficie. A tali tracce si collega pertanto l’idea della profondità e dello spazio intesi come qualcosa di continuo che può essere interrotto senza per ciò venir compromesso. Da una negazione insomma nasce un’affermazione. E’ quindi il caso di osservare, alla luce di questi ultimi dipinti, fino a che punto l’indagine di Verna si sia esplicata e come nel suo complesso il processo sia avvenuto.

Il punto focale, a mio avviso, consiste nella proposizione di nuovi elementi che ampliano assai il discorso. Al problema colore-forma-luce è infatti subentrato ora quello dello spazio-colore con un senso più esistenziale della profondità. Ciascun dipinto altro non è che un continuum, un missaggio di elementi che, sul piano psicologico, assumono una dinamica e una dimensione senza in alcun modo presupporre l’idea della forma intesa quale modulo compiuto.

La dialettica fra lo spazio cui si allude e il colore che lo determina e infine l’elemento traumatico (le sottili separazioni, quasi fessure di luce filtrante) sono infatti soltanto dei presupposti od elementi mentali di una dialettica all’interno della quale lo spazio trova una sua organizzazione. Il che lascia il discorso aperto in varie direzioni rendendo ancora più sottile quella ambiguità dialettica di cui s’è detto poco fa. Spazio organizzato infatti non vuol dire spazio definito; per voler essere più esatti, si può aggiungere che nel caso di Verna si tratta, in linea di massima, di una allusione spaziale, di una sorta di tensione che tende ad uscire dai confini di un rigore geometrico per divenire un fatto virtuale. E’ come se (dopo le precedenti esperienze che chiaramente discendevano dalle sperimentazioni di Balla e di Dorazio tenute presenti per proseguire e portare avanti precise ricerche spazio-luministiche), è come se -dicevo – Claudio Verna avesse sentito la necessità di dilatare il problema, di renderlo ancora più coinvolgente in una dimensione spazio-temporale, nello sviluppo di una tematica che ha le sue radici anche in Albers e Rothko.

La tensione psicologica del colore, il suo divenire spazio sono infatti il prodotto di un senso del tempo e dello spazio raffrontati appunto alla scansione e alla misura del loro fluire e contemporaneamente al loro continuo divenire, considerato nella sua assoluta completezza.

Pertanto il gesto del dipingere in Claudio Verna, questa sua continua ricerca di toni e accostamenti, diventa ad un certo punto, quale atteggiamento e situazione psicologica, un preciso modo di essere concettualmente espresso e dialetticamente proposto.

L’opera dipinta quindi non è più fine a se stessa nella sua assolutezza; è invece il presupposto e il punto di partenza di un autentico diagramma mentale. Non siamo a livello di contemplazione bensì a quello di immediata proposizione per un intervento diretto dell’osservatore; contemporaneamente nella iterazione delle opere, nella continuità dì una tematica (costantemente posta in discussione) abbiamo una immagine pulsante ed avvolgente di una idea e di una definizione dell’esistere in quanto situazione aperta ed osservata senza alcuna effusione sentimentale bensì con una ironia di fondo grazie alla quale ogni certezza diventa interrogativo nel rigore rarefatto e sospeso di un preciso calcolo mentale.