1970 - Piero DorazioClaudio Verna, catalogo personale Galleria dell’Ariete, Milano, ottobre 1970

Vale la pena? Vale la pena di prendere il telaio, tirarci su ancora una tela, prepararla a ricevere come si deve il colore, perché resti vivo a lungo? Vale la pena di lavare i pennelli e di passare delle ore a esercitare l’occhio alla mira giusta sulle tinte, a sentire il polso della composizione? Vale la pena di accanirsi a snidare il probabile dalle pieghe dell’incognito che scoraggia tutti; a cercare con gli occhi, e non con i pensieri e le parole, quello che è possibile, e trasformarlo entro i suoi limiti, in realtà, in creazione?

Invece di rinunciare alle premesse vere, e accettare quelle di Duchamp cattivo pittore, saltando adesso sul carrozzone comodo della modernità che parte a tutte le ore verso il futuro. Invece di portarsi appresso il cruccio di Cèzanne, la pesante libertà di Matisse, la serenità in scatola di Mondrian e il vuoto, e i cumuli turchini di Rothko; è meglio mollare questa zavorra; la tradizione, il linguaggio, la tecnica propria della pittura. Contentarsi e accettare quello che dicono tutti: che l’arte è morta o sta morendo, che l’opera d’arte è un oggetto sufficiente così come si inserisce e somiglia d’aspetto al mondo attuale, quello della tecnica, delle forme lisce, lucide, arrotondate; appetitose per i sensi, ma senza problemi oltre quel livello.

Oppure contentarsi al contrario, perché il vizio di base è lo stesso, e abbandonare anche questo estremo aspetto «chic» dell’opera e renderla prosaica, senza forma, senza coordinazione né struttura, e riaccostarsi all’arte come a un orto dopo il temporale. 

Ritirarsi allora come i poveri e credere alle povere cose, agli aspetti umili, imprevisti, naturali della realtà e col sentimento presunto fresco, presentarli come eremo personale e antitesi, al mondo presuntuoso delle tecniche, della cultura e dei consumi.

Al di qua o al di là della cultura, seguendo le curve, le punte e le polveri della fantasia, dentro il proprio intimo io, passando dal Kitsch a un ulteriore modello di naturalismo; questa volta usando l’arte per dimostrare magari la fenomenologia di Husserl o il romanticismo di Mao, piuttosto che l’economia di Keynes o la cibernetica.

Dicevo che alla base il vizio mi sembra lo stesso; ed è l’equivoco di «inventare», sempre rispetto a una certa cultura, anziché «creare», accettando o tralasciando con naturalezza, i problemi della «cultura» al fine di fare l’arte per l’arte, che così direttamente (e per fortuna), non ha mai avuto dipendenza da quei problemi propri appunto di quella cultura e della società che ne condivide o rifiuta le convenzioni.

Claudio Verna vuole fare arte e non partecipare altrimenti che con i suoi quadri al fermento delle idee e ai dibattiti della cultura artistica d’oggi. Invece di sporcarsi le mani di arancio e di verde, di passare le notti a torturarsi gli occhi, dimenticando tutto quello che può, compreso se stesso, a favore dell’arancio o del verde giusto, potrebbe rendersi la vita meno difficile. Potrebbe lavorare al buio, dentro la sua testa e pensarne una e poi un’altra e farle tutte e due, dopo aver riflettuto sui modelli correnti dell’arte, dedurre o indurre la sua prossima invenzione, ed entrare in concorrenza, aggregarsi ai movimenti più attivi e alla costante avanguardia.

Al contrario lui è sempre stato un pittore tutto per conto suo, attento, dedicato, con una storia autentica alle spalle. Claudio Verna potrebbe usare il telefono come suggeriva Malevitch e ordinare delle silhouettes di plexiglass anche lui, e scatole spaziali di alluminio anticorodal, palle di plastica e lingue di fuoco.

Potrebbe scavare anziché dentro se stesso, un po’ di terra nel suo giardino e presentarla insieme a un cumulo di pietra pomice. Potrebbe seguire cioè il gusto attuale il cui credo è: chi più ne ha, più ne metta. Allora i Calvesi, i Celant, Trini, Menna e Boatto e specialmente De Marchis, lo accoglierebbero a braccia aperte negli inventari dei loro gladiatori di turno e nei ruolini della loro avanguardia. Lo troverebbero originale e adeguato al loro modo di confondere creatività con critica, fare arte con esercizi d’intelligenza critica applicata senza indugio e spietatamente, all’opera appena fatta e messa in circolazione l’anno prima. Verna farebbe meglio a fare dell’arte più verbale ovvero più traducibile in parole e riscontrabile in concetti; troverebbe penne più fluide e più ispirate. La risposta alla domanda d’acchito è SI.

Verna fa bene a insistere nella ricerca personale all’interno di un linguaggio che come quello della pittura è insostituibile come la colla. Lui trascura le novità da anni, ed è il pittore più moderno adesso; non si preoccupa della originalità e dell’attualità, né di quei criteri che in arte riguardano se mai, un giudizio che è sempre a posteriori.

Certo che vale la pena di continuare immuni l’indagine che vale, sul rapporto psicologico fra colore e spazio, fra sensazione e simbolo, fra il reale e il virtuale, fra esperienza e concetto, fra arte e gusto. E poi per essere più precisi, guardiamo i quadri di Verna non come il mondo corrente degli oggetti, ma per quello che sono, secondo il linguaggio che lui ha scelto e che adopera, quello pertinente alla pittura, cioè a una superficie sulla quale vengono applicati segni e colori.

C’è da dire allora che Verna intende lo spazio come un campo di energie virtuali; quindi rispetta la natura bidimensionale del quadro invece di considerarla come un cassetto da riempire di cose o forme.

Al di là dell’impasse cubista o concretista (vedi op-art), lui vi opera senza tagli, senza disegno mentale né con il disegno automatico che vuole dividere la superficie in zone da colorare più tardi.

Verna non disegna e questo è un punto a suo vantaggio; costruisce il suo spazio per zone di colore, per campiture e accenti, da un margine della tela all’altro. Il suo colore è spazio vibrante, non è più elemento di una costruzione per piani o linee di uno spazio da riempire e previsto. E’ spazio radiante ogni campitura o sagoma che egli scelga nel repertorio pittorico che è suo e non è della geometria né del design. Ogni sua immagine è un’apparizione che intrattiene, sfida o stimola o conforta o ispira l’occhio, e tanto per cominciare, questa è la virtù della grande pittura e lui la conosce bene.

Il capriccio dell’arte e non l’arte del capriccio; questo sarebbe il motto di Verna e dei molti suoi amici che come lui vanno avanti lungo la lama che scuoia la follia e la riduce in verità; spesso quasi in silenzio.

Fare un quadro dentro il quadro e poi intorno al quadro come fa lui, non è gioco, è il modo più giusto di fare arte con libertà oggi.