1968 - Marisa VolpiClaudio Verna, catalogo personale Galleria Flori, Firenze, maggio 1968

Ridare articolazione al vedere a livello di coscienza, liberarci dell’automatismo della percezione è il grande tema dell’arte contemporanea, dall’impressionismo ad oggi: scoprire gli artifici attraverso i quali può essere isolato un elemento nella catena delle immagini, evidenziare la fattura dei quadro (e quindi l’immagine come fattura), far emergere i processi dell’apprendimento visivo – illusioni ottiche, organizzazione dello spazio, relazionalità dei colori, ecc. – Sempre per illuminare il fatto semplicissimo, mai acquisito una volta per tutte, che per «resuscitare la nostra percezione della vita» occorre interromperne il processo di agnizione, mettere a fuoco un anello del complesso rapporto soggettività percettività oggettività, sostituire il vedere al puro riconoscere (Sklovsky).

E qui cessa il minimo comune denominatore che unisce Malevic a Duchamp, Kandinsky a De Chirico, Burri a Morris Louis, e così via.

Tecniche, materiali, procedimenti creativi, oggetti di indagine, scelte di approccio sono nei singoli artisti radicalmente diversi o addirittura contrastanti.

Il lavoro di Claudio Verna si situa nel filone cui appartengono in ordine cronologico artisti come Seurat, Rothko, Dorazio, un filone cioè che punta sull’analisi delle componenti e degli effetti del dinamismo luce-colore-spazio. Seurat iniziava un processo di decantazione dell’impressionismo che condurrà a Mondrian, Rothko nel contesto americano degli anni ’50, reimmergendo il quadro nel biomorfismo e nel materismo, faceva cadere la rete compositiva tradizionale e scopriva il potere diretto della luce come massa di materia vibrante.

Dorazio, mediazione tra Seurat – la coscienza estesa dei reticolo luminoso – e la nuova astrazione americana – il quadro come campo d’azione del colore – esercita un ruolo di tensione tra le due culture particolarmente stimolante per i più giovani.

Claudio Verna si inserisce in questa situazione. Egli crede nel valore della pittura come artificio che, distanziandoci dalla continuità opaca dei nostro rapporto con le cose, ci permette una sosta. La sosta dovrebbe darci la misura del potere della visione.

Egli, negli ultimi due anni, ha trasformato l’impaginazione geometrico-lirica, illusoriamente fiduciosa nella sublimazione interiore offerta dalla pittura, in una risposta più totale, e quindi più essenziale del quadro come valore contestato. Il bianco che ora si spalanca dietro (o si chiude davanti) alle bande di colore nette, appena sagomate, mordenti una bordatura sottile di colore diverso, sembra avere una specie di pathos, come reazione di un vero pittore alla domanda: «deve ancora esistere la pittura?».

L’articolazione felice ed ingenua dei disegno colorato dei primi quadri, tranquillamente ancorati alla tradizione dell’astrattismo storico, è scomparsa; scomparso è il senso di un colore estetico che si sfodera limpido e interiore.

La luce del bianco dei quadri attuali è la voragine del niente, il niente luminoso di Malevic è lì nella tela di Verna, il quale vi traccia delle sbarre orientative nell’illusione umana di arginarne la forza.

La semplificazione della loro immagine opera sulla percezione facendo sentire il quadro non più come un rettangolino sul quale si muovono dei ritmi armoniosi, ma come un pezzo di spazio, illusivo sia pure, contro il quale e nel quale il colore, ridotto ad una tonalità pura, ad una stesura uniforme, spesso ripetuto uguale se le bande si ripetono, stabilisce una presenza inequivocabile.

La presenza è chiaramente dialettica col bianco, ma le sagomature leggere, le bordature che appaiono o dispaiono non fanno che sottolineare la staticità monumentale, e quindi il silenzio.

I quadri con le strisce sottili che sembrano degli spiragli di colore aperti dietro il bianco confermano questa sensazione di una massa ferma in cui il colore tenta di cogliere (o a cui costringe a dare) una mobilità minima come valore contemplativo dell’estremo confine della pittura.