1968 - Italo TomassoniI tre momenti della pittura di Verna, catalogo personale Galleria Il Sagittario, Bari, marzo 1968

Credo che sia opportuno, anzitutto, cercare di stabilire che cosa, nei quadri di Verna, è concreto e oggettivo, e che cosa è, invece, mentale e astratto. (Questa problematico esclude, intanto, una catalogazione poetica di tipo oggettuale; il quadro infatti non è oggetto ma, tradizionalmente, si presenta come un supporto «tela» su cui si delineano le forme e i colorì realizzati secondo i modi canonici della pittura a olio). Per i loro connotati essenziali e per il contesto delle motivazioni poetiche, si può affermare che lo spazio esibisce caratteristiche mentali mentre il colore si proietta su di noi con elevate qualità oggettive. E’ tra questi due poli che oscilla, con moto chiaramente pendolare, tutta la ricerca di Verna.

La matrice o il punto di partenza della sua pittura è lo spazio, uno spazio non fenomenologico ma di impronta platonica, dato cioè come pensiero, idea, come possibilità logica dell’essere della forma, dalla quale si trova però distaccato escludendo, in sé, ogni determinazione. La modalità attraverso la quale questa entità diviene sensibile è la geometria intesa quale misura e proporzione, proprietà delle linee, delle superfici, dei piani. Ma la geometria non riesce ad essere, da sola, una modalità percettiva dello spazio, rimane ancora un fatto di trascrizione mentale che orienta lo spazio in una certa direzione, ma è percepibile come può esserlo un segno bianco tracciato sul bianco o un gesto impresso nel vuoto.

Quand’è che da potenzialità la geometria diventa objectum?, quando incontra il colore, cioè quando la superficie diventa piano colorato, la linea mentalmente intuita precipita in un evento, che è un evento colorato, come in una reazione al tornasole.

Il colore funziona da fenomenizzatore dell’immagine, catalizza l’idea sull’immagine che non è immagine dell’idea ma qualcosa d’altro, di diverso, principalmente qualcosa di concreto e scattante. In questa seconda fase purovisibilista domina la fisicità dell’immagine, scaglionata in un breve percorso di fenomenologia della visione.

Si tratta, inizialmente, di un colore-forma con forti accentuazioni iconiche, che, nella tela, assume una dimensione materiale, quasi una trompe-l’oeil a rovescio. L’immagine è data da una serie di campiture cromatiche (che non sono fondate sulla mistica di un colore evocativo-fantastico come nella New-abstraction) e si configura come il luogo fisico di se stessa, il suo farsi sensibile che non rinvia se non a sé medesima, e alle modalità del suo darsi.

Il primo momento della percezione è un momento pieno, colmo: uno degli obbiettivi di Verna è quello di imporre una saturazione visiva perentoria e captante attraverso una condensazione dello spazio nei luoghi colorati. E’, se si vuole, il momento dell’impatto percettivo. Il colore assolve chiaramente una funzione strutturale, regge su di sé il peso dello spazio, surrogandosi alla forma. Ma il colore non è soltanto forma, fenomenizzandosi, la geometria si misura con la luce che è consustanziale allo spazio empirico e di esso ha anche gli attributi cromatici. A contatto con la luce l’immagine scandisce i suoi contorni, si fa nitida e lucida, si prepara a tornare ad essere un pensiero.

Perché si realizzi quel moto pendolare di cui si diceva, infatti, è necessario che l’immagine torni al punto di partenza, cioè si riassorba nell’idea, torni alla dimensione mentale di cui era stata emanazione. E’ il terzo momento della pittura di Verna. Dai suoi segnali rigorosi comincia ad emanare una segreta finezza; luce, colore e forma si distillano in una quintessenza, inafferrabile se non per via di analisi. I dati si scompongono e si ricompongono come in un miraggio dai tempi lentissimi in un clima sospeso e silente che è dato da questa distillazione psicologica dell’idea che si fa immagine e poi si ritrae in se stessa, come per paura di una contaminazione mondana.